Il Fanfullino 2012 e il Nobel a Bob Dylan

Con il Premio Nobel a Dylan, l’Accademia di Svezia non ha premiato un letterato, ha premiato una voce. Ha premiato la voce, anzi le molte voci che Dylan ha incarnato nel corso della sua lunghissima carriera, e che tutte assieme riassumono la voce dell’America. Una voce, quella di Dylan, che risente della cantillazione ebraica, dei canti di guerra dei nativi, delle inflessioni dolenti e sarcastiche del blues, del’urgenza del desiderio adolescenziale che emerge nel rock and roll, dello sprezzo metropolitano del rhythm and bles, della pomposa solennità del gospel. Ma l’Accademia di Svezia ha anche premiato ciò che questa voce ha assimilato dalla grande poesia simbolista e dal modernismo americano, fino all’epoca dei poeti beat e oltre. Ha premiato il modo in cui Dylan è riuscito a far “cantare” Rimbaud e E.E. Cummins, ha premiato le infinite catene di citazioni e rimandi che costituiscono l’incredibile collage delle sue canzoni, da quelle più conosciute a quelle più recenti, che letterariamente sono ancora più complesse, e che lui porta in giro per il mondo nei suoi spettacoli. Ha premiato il sapiente, perfino ossessivo uso della Bibbia, onnipresente nelle sue canzoni, come “grande codice” (la definizione è del critico Northrop Frye) della letteratura occidentale e di quella americana in particolare. Molti hanno gioito alla notizia, e molti altri sono rimasti stupiti. Percé Dylan? Perché non istituire un Nobel per la voce, allora? O per la performance. Le stesse domande erano state fatte nel 1997, quando il premiato era stato Dario Fo. Non sono domande da ignorare, ma invece di spingerci a un rifiuto, come se l’Accademia di Svezia si fosse piegata alle logiche di una comunicazione più facile di quella letteraria (non c’è niente di facile in Dylan, ve lo dice chi l’ha tradotto e lo sta traducendo ancora, per una prossima edizione italiana delle canzoni), ci devono spingere piuttosto a chiederci se l’idea che abbiamo della letteratura come unicamente scritta su una pagina non sia dopotutto limitante. L’istituzione della letteratura non esiste senza il il silenzio del libro. Ma la poesia è più antica della letteratura, e in origine non era nemmeno scritta. Molta poesia che si scrive oggi è bella sulla pagina, ma non ha la forza di camminare da sola, non ha la forza di passare dalla pagina alla voce senza perdere il suo potere. Ma in fondo è sempre stato così. Dante pretende di essere letto ad alta voce. Petrarca no, non perde niente ad essere letto in silenzio, né guadagna molto ad essere pronunciato. Shakespeare lo si può leggere, ma perde molto a non essere recitato. Senza fare paragoni, Dylan è questo tipo di poeta, che sulla pagina ci sta stretto, anzi, data l’irrequietezza che l’ha accompagnato per tutta la vita, non ci sta bene per niente. La poesia è come il sangue, deve circolare. Se coagula sulla pagina e da lì non si muove, la si può leggere, la si può apprezzare, ma nella maggior parte dei casi resta lì. Se invece ha la forza di alzarsi e iniziare un viaggio, allora incontrerà persone, situazioni e casi della vita che altrimenti non avrebbe mai conosciuto. L’arte di Dylan sta in questo. Le sue canzoni non sono necessariamente “belle poesie”. Molte lo sono, molte altre no. Però si sente la vita che circola, si sente il vento che tira. Lo si sente in “Blowin’ in the Wind”, una canzone così semplice che i colleghi folksinger di Dylan, ai tempi del suo arrivo a New York nei primi anni Sessanta, la giudicavano perfino un po’ stupidina. Eppure quella canzone di strada ne ha fatta, la conoscono dovunque, come “Bella ciao” del resto, e non ha più niente a che fare con il suo autore, come è giusto che sia. Si sente il vento della distrzuione, sempre possibile per via della follia umana, in “A Hard Rain’s A-Gonna Fall”; si sente il vento del cambiamento in “The Times They Are A-Changin’” – non è detto che si sappia in anticipo quale cambiamento sarà, e non è nemmeno detto se sarà un bene oppure no, ma l’essenziale, quello che Dylan vuole farci capire con le sue cinquecento canzoni, è che niente sta mai fermo e che nessuno può riposarsi sugli allori. Nemmeno su quelli del Nobel. Dylan andrà a prendere il premio, si farà fotografare in marsina, con l’aria mai veramente convinta che si porta sempre addosso, sempre un po’ rivolta altrove, il giorno dopo tornerà a cantare.

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