Il dramma dei migranti visto dal mare

«Come fuoco a mare», aria di tempesta e lampi rossi dalle navi che si riflettono sulla superfice dell’acqua. Luci nella notte come in un tempo di guerra.

Lampedusa emerge piano piano dalle parole dei suoi abitanti, dalle immagini di Gianfranco Rosi e dal racconto che compone la trama del film vincitore dell’Orso d’oro all’ultimo festival di Berlino. Prima che di migranti Fuocoammare racconta di un’isola e della sua gente, parla di un popolo “marinaio” e per questo, poi, parla di accoglienza, di flussi senza tempo di uomini e donne. Di una terra, Lampedusa, sospesa nel corpo profondo e liquido del Mediterraneo, uno scoglio sulla carta nautica, distante 70 miglia dalla costa africana e 120 da quella italiana. In mezzo al mare. Per questo il racconto di chi ci vive diventa così: semplice ed essenziale. Come la logica di Pietro Bartolo, il medico che dirige il poliambulatorio dell’isola, che non può essere diversa da quella del marinaio. «Il dovere di un uomo che sia un uomo è quello di aiutare, di prestare soccorso a chi arriva dal mare». Senza retorica, senza possibilità di interpretazione né di fraintendimento. Lampedusa che ha salvato migliaia di uomini e donne e bambini dall’inizio della crisi umanitaria e che non avrebbe potuto fare diversamente, non poteva essere altrimenti. Altrettanti, migliaia, ne ha visti morire, in un braccio di mare che è un cimitero sommerso, sconfinato, che bisognerebbe avere il coraggio di guardare. E che Rosi prova a raccontare.

Il regista sceglie uno stile narrativo scarno, ridotto all’essenziale, “semplice” come sono i confini netti di un’isola. Fuocoammare è così: «tra cielo e mare», difficile, come la vita del marinaio, una volta eliminata la retorica. Rosi lavora per sottrazione, scava nel girato ottenuto in un anno di permanenza a Lampedusa, e spoglia il racconto di ogni appiglio alla cronaca. Il suo film diventa politico proprio per l’assenza dei volti visti troppe volte in tv, per la mancanza delle frasi sentite ripetere all’infinito. Il pericolo maggiore poteva essere quello di uno sguardo “finto”, artificiale, se non addirittura ipocrita. Filmare in un modo che non fosse onesto né rispondente alla verità dei fatti. Un rischio che il regista aggira scegliendo la via del cinema e ignorando l’inchiesta. Il suo è un “documentario civile”, fatto con un pugno di volti veri, con un dialogo fitto e sottotitolato, che accompagna immagini di grande impatto ma non di grande suggestione (realizzate scegliendo una fotografia quasi “neorealista”) che si distingue subito dalla fredda cronaca giornalistica e dalla finta retorica della celebrazione. E che appare per questo subito sincero. Vero proprio come Pietro Bartolo, il medico dell’isola, o come Samuele ragazzino che aspetta l’estate e ha lo sguardo rivolto al mare e al futuro, che deve andare sul pontile galleggiante «per farsi lo stomaco» e iniziare a essere marinaio. Vero come Lampedusa, il cui racconto diventa epico, perso nel tempo.

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