Il dolore in fondo al cuore, tra colpa e redenzione

Manchester, quella sul mare, nel Massachusetts, a poco più di un’ora di macchina da Boston. È partito da qui Lee, lasciando l’oceano, la barca da pesca, le case basse affacciate sul porto, il vento che porta la salsedine fin dentro le strade per andare a seppellirsi altrove, in uno scantinato in città. E partito aspettando di congelare assieme ai suoi fantasmi, sperando che il gelo potesse fare un giorno ciò che il dolore ha fatto con il suo cuore. Perché purtroppo non è come ha detto il poliziotto quel giorno, non è che commetti un errore e poi te lo puoi perdonare, magari te lo puoi persino dimenticare…

È un film sull’elaborazione del lutto, su colpa e redenzione quello scritto e diretto da Kenneth Lonergan, regista con un curriculum a dir poco “avaro” (il suo esordio Conta su di me, che aveva qualche punto di contatto con questo, era del 2000) che con Manchester by the sea è riuscito nell’impresa di conquistare pubblico, critica e riconoscimenti per presentarsi all’Oscar 2017 con ben sei candidature (con tutte le più importanti: miglior film, regia e sceneggiatura e quelle meritatissime al miglior attore protagonista Casey Affleck e alla miglior attrice non protagonista Michelle Williams) dopo aver vinto già cinque prestigiosi Golden Globe. Gente comune nel freddo del Massachusetts, dove si trova la Manchester americana e dove torna Lee a regolare i conti con un passato che ha cercato invano di lasciarsi alle spalle, consapevole che un dolore come il suo non potrà mai essere attenuato. Gente comune con la stessa partitura di musica classica ad accompagnare il dramma privato che diventa di una comunità e un dolore che divide in due: le persone, gli affetti. Che separa invece di unire, che scava cicatrici profonde impossibili da rimarginare.

Lee ripara tubi, ritira l’immondizia, attacca briga al bar, sta nascosto e sepolto insieme al suo senso di colpa, fin quando il passato lo viene a cercare, quando un nuovo dramma si affaccia alla sua porta. La morte del fratello, il ritorno a casa, il nipote diventato ragazzo da prendere in custodia per rispettare la volontà dell’amatissimo fratello. Lonergan divide la sua storia in tre atti, anche se poi fa avanti e indietro sfruttando dei flashback assolutamente ben congegnati e sempre ben inseriti nel racconto. Parla del vuoto che crea il dolore, del dramma della perdita degli affetti più cari, senza mai (o quasi mai) ricorrere a una “scena madre”, senza trasformare il suo film in un melò, misurando anzi i gesti, le parole. Nascondendo persino le immagini. Racconta trattenendo: nei dialoghi, nelle inquadrature. La misura è senz’altro la dote migliore del suo film, l’equilibrio che si ritrova riassunto tutto in quella bellissima scena in cui Lee incontra per caso per strada l’ex moglie. Pochi minuti di emozione pura, un dialogo fatto di poche parole e di molti sguardi, trattenuti anche quelli. E «i cuori spezzati» di Lee e di sua moglie Randi che prendono una forma.

Manchester by the sea racconta tutto questo con pudore, con delicatezza, rispettando i sentimenti, facendo coincidere il gelo dell’ambiente con quello dell’anima dei suoi personaggi. Ma non è un film senza speranza, anzi. Quella la si può ritrovare forse al termine della salita, mollando magari gli ormeggi per tornare ancora in mare, aggrappandosi a una inattesa seconda occasione, per quanto appaia fragile e improbabile. Provando insomma a vivere e a perdonarsi.

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