Il coro del King’s College

regala una serata in note

di grande raffinatezza

Fidandoci del solo ascolto, avremmo giurato sul loro professionismo: troppa la dimestichezza con la pagina da plasmare come creta viva, troppa l’esattezza nell’utilizzo dei più disparati mezzi tecnici, il gusto seppur ipersorvegliato, britannico appunto, la facilità di resa. Invece no; parlando con alcuni di loro, a concerto terminato, si scopre che Tim – australiano di Perth – è un futuro ingegnere meccanico ed è tra di loro quasi per avventura, per amore della musica coltivata anche a migliaia di miglia dalla sua terra, durante l’anno di Erasmus in Europa. Amber invece sta già pianificando il suo futuro da cantante, e l’esperienza corale rappresenta per lei il fulcro di una preparazione alla carriera. Insieme sono un bel gruppo: inappuntabile con lo spartito in mano, scanzonato, come lo è un grappolo di ventenni in trasferta all’estero, nel dopo concerto. Amatorialità affiancata da un ben più ferreo lavoro di ricerca e di studio, dunque, pagato a caro prezzo – come ci confessano gli stessi coristi – aderendo alle costose attività opzionali facoltative esterne al piano di studi: ecco servita la formula magica capace di accendere di luce e di smagliante sicurezza il King’s College di Londra, applauditissimo lo scorso venerdì nella cornice della chiesa di S. Francesco a Lodi. La proposta dell’associazione don Quartieri di “Aspettando le stelle”, la mini rassegna estiva culminante in una serata di voci, è ormai attesa consuetudine nonché occasione per ascoltare alcune tra le più interessanti compagini d’Oltremanica. Quest’anno la breve ma intesa tournée lombarda, tre giorni a spasso tra il Lodigiano e il Cremasco, ha rivelato i talenti annidati nelle file del coro del College londinese diretto da David Trendell. Sorgente del viaggio musicale, come ha opportunamente introdotto Giampiero Innocente, direttore del Collegium Vocale di Crema e stretto collaboratore dell’associazione lodigiana, era il repertorio rinascimentale italiano e francese dedicato al mistero della risurrezione; in apertura, la trasparenza di Jean Lhéritier in Surrexit pastor bonus, seguita dall’opulenza tutta italiana di Allegri e della sua MissaChristus resurgens con incastonato, al centro, l’omonimo Mottetto. Un ordito di squisita fattura filato con algebrica precisione esecutiva a cui, soprattutto nella maestosità della Messa, non avrebbe sfigurato una più appassionata espressività, un’adesione più interiorizzata e quindi plastica di questa scrittura tutta riccioli e umanissimi chiaroscuri. A spiccare, oltre al superbo quartetto che – dalla cantoria – nel dolente Miserere dello stesso Allegri duettava con il coro e con il tenor solista, posto in fondo alla navata, era la morbidezza della sezione contraltile, l’eleganza del suo timbro scuro e levigato ancor più lampante nel confronto con l’algida precisione dei soprani. Poi, ecco il ritorno a casa, nel segno dell’impronta romantica, ammiccante all’aristocratica vivacità mendelssohniana, dell’Inghilterra di Stanford e dei suoi Mottetti latini op.38, forse dell’intero concerto il momento più alto per intensità, calore, perfetta adesione all’anima della pagina. E per chiudere con un autentico inno alla vita e alla presenza divina sulla terra, un saggio di bravura a sfidare le impervie geometrie di una polifonia vertiginosa, stringente nel suo tappeto di guglie, così agile e mossa da sembrare scritta per tanti strumenti, anziché per doppio coro a otto voci: Singet dem Hern, ovvero il sommo Bach, ispirato traduttore della parola di Dio sul pentagramma, sulle cui note si è conclusa la felice serata.

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