Il “complotto” di Ilaria contro Fiorani

La Rossetti in libreria con un romanzo che parte da Bancopoli

«Mi chiamo Virginia, ho diciannove anni, e se tu dormissi, vorrei semplicemente trattenerti, cercare lo scheletro affilato del tuo cuore. Casa della nonna ha un giardino immenso, e l’altro giorno, al telefono, lei mi ha detto Non vedo l’ora che arrivi, Virginia, vedi, abbiamo piantato maggiorana, menta, e buganvillea, qualche mese fa, e ora c’è profumo di cura. Ti cercherei lì, sperando di scovarti in qualche baluginio d’ombra. Mi chiamo Virginia, e tu sei mia madre. Dormi laggiù, in quel giardino, vicino alla maggiorana, nel vaso del basilico».

Sono parole di dolore, di angoscia, di straziante amore, di morte (con l’inusuale, boccaccesca sepoltura in un vaso), quelle che Ilaria Rossetti mette in bocca, sin dalle prime pagine, alla giovane protagonista del suo nuovo romanzo, Happy Italy, da oggi in libreria per i tipi di Giulio Perrone Editore. Ed è la morte, quella tragica e assurda della madre - rimasta uccisa in un disperato tentativo di rapina per auto-risarcirsi -, ma anche quella, auspicata, desiderata, accuratamente preparata in un folle piano di vendetta dell’uomo ritenutone responsabile, il convitato di pietra della seconda fatica letteraria della 24enne scrittrice lodigiana, già vincitrice del Campiello giovani con il suo racconto d’esordio nel 2007.

Un romanzo maturo - a dispetto dell’età dell’autrice - , forte, coraggioso, che non ha paura di affrontare un tema tabù di tanta letteratura contemporanea, in specie giovanile, intessendolo in una trama che parte dall’attualità - l’esplosione di uno degli scandali finanziari degli ultimi anni, strettamente legato alla sua città natale, quello della cosiddetta “Bancopoli”, cioè della fallita scalata della Banca Popolare ad Antonveneta da parte di Gianpiero Fiorani e degli altri “furbetti” - per costruire il suo intreccio fantastico. Un’idea, quella del miscelare cronaca e fantasia, realtà e finzione, che segna un po’ la cifra della narrativa di Ilaria, la quale già nel precedente Tu che ne andrai ovunque aveva preso spunto da un fatto realmente accaduto – gli attentati alla metropolitana di Londra e la paura serpeggiante in tutto l’Occidente nei confronti del terrorismo di matrice islamica – per poi raccontare le vite di tre giovani, anch’essi precocemente provati dalla sofferenza nelle sue svariate forme (tradimento, abbandono, amori sbagliati) e sbigottiti davanti a un futuro con poche speranza e senza più ideali.

Un libro su Fiorani, un libro contro Fiorani (gli aggettivi non certo leggeri nei suoi confronti si sprecano lungo le quasi 300 pagine del romanzo), scritto da una sua concittadina e con uno spunto di partenza – il folle desiderio di vendetta di tre “vittime” della spregiudicatezza del banchiere lodigiano – forte e inusuale. Non hai paura delle reazioni e delle possibili conseguenze di una scelta del genere?

«All’inizio quello di Bancopoli, uno scandalo che mi aveva molto colpito visto che è scoppiato proprio nella mia città, voleva essere solo uno sfondo; poi invece è diventato assai più esplicito, non so nemmeno io dire perché. A quel punto ne ho parlato con l’editore e i suoi legali, i quali mi hanno confortato. Si tratta pur sempre di un romanzo, dove lo spunto di partenza sfuma nella finzione letteraria. Fiorani mi interessava come simbolo di una certa finanza “allegra”, e la sua sostanziale impunità (sua come di molti altri protagonisti di crack anche più clamorosi) come prototipo di una giustizia lenta, tardiva e spesso del tutto incapace di punire i colpevoli. Mi serviva un uomo in carne ossa che divenisse l’oggetto dell’odio delle persone che per colpa sua – anche se nulla di quanto loro accaduto è realmente accaduto – hanno perso gli affetti più cari: una madre, una figlia, un fratello».

Dunque uno stratagemma dal quale partire per costruire un intreccio e, soprattutto, per disegnare meglio i tratti dei personaggi protagonisti dell’insensato piano per uccidere Fiorani. Un piano che dà esso stesso – più che la sua effettiva possibilità di concretizzarsi - il senso di una vita altrimenti svuotata dalla scomparsa dei propri congiunti, piagata dal dolore della perdita che azzera le relazioni e cancella i sogni.

«È esatto – prosegue Ilaria da Londra, dove studia (sta facendo la “specialistica” in Lingue) e lavora in un bar per impratichirsi con l’inglese -. Io credo che la letteratura debba partire dalla realtà, dai fatti. Le persone vengono determinate dai fatti e scandali come Bancopoli, come Parmalat, lasciano solchi profondi nei vissuti; non solo perché magari li mettono sul lastrico, ma perché, impoverendole, truffandole, le privano anche della loro dignità, della fiducia nel mondo in cui si trovano a vivere».

Vittoria, la diciannovenne grassoccia protagonista principale del libro, incarna in pieno questo tipo di profilo, con le sue fragilità, il suo saper vivere solo la dimensione dell’oggi, il suo cercare ovunque “istruzioni” per montare in qualche modo i pezzi smembrati della sua persona, il suo buttarsi in un lavoro disgustoso (la pulizia, sottopagata, dei bagni di una stazione ferroviaria) pur di trovare in qualche modo un contatto con la realtà...

«Vittoria è figlia di una situazione che non ha capito, che non ha accettato: l’assurda scomparsa della mamma, freddata da un vigilante in un goffo tentativo di rapina in banca. Ha dunque bisogno di trovare punti fermi cui ancorarsi, concretamente, fisicamente. Ha bisogno di contatto con le cose, con la materia viva. Per questo cerca e accetta un lavoro così sgradevole abbandonando gli studi; per questo legge soltanto libretti di istruzione, qualunque oggetto riguardino; perché lei il suo “libretto” l’ha perso quella tragica mattina e non l’ha più ritrovato. E per questo lei e la nonna – anch’essa aggrappata con una disperata concretezza alla figlia al di là della morte che gliel’ha strappata – decidono di collocarne le ceneri nel vaso del basilico. Per tenerla con loro, tutti i giorni, nello splendido e rigoglioso giardino della casa di Moneglia dove si sono riunite».

Un giardino sgargiante di colori e rigoglioso di piante, che nel romanzo descrivi con cura, quasi come in un trattato medievale. Perché tanta attenzione?

«Per contrasto. Le piante, il verde, i colori, sono l’altra faccia del buio, del nero delle vite senza luce di Vittoria, della nonna e di Ettore (il fratello dell’uomo morto suicida perché fallito nell’ipotetico crack della Bpl, il quale ha trovato la sua personale fuga dalla realtà nella scrittura di un saggio semi-biografico su Berlusconi, ndr). E poi quel vaso, con le sue ceneri di morte, è anch’esso in contrasto con l’idea della natura che crea, dove tutto cresce e fiorisce».

Vittoria lavora con le mani infilate in guanti di lattice e impegnate a svuotare lavelli e wc delle loro sozzure; la nonna, Alice, vive accarezzando di tanto in tanto la pistola che dovrà spegnere per sempre il sorriso sul volto del banchiere lodigiano; Ettore trova nella scrittura una via di fuga dallo strazio per il corpo martoriato del fratello, sfracellato al suolo dopo un volo di decine di metri. Nel libro dici che la scrittura è restituzione. Che cosa vuoi dire?

«La scrittura restituisce a Ettore l’Italia berlusconiana e tutta la sua baraonda festaiola e tragica, così come i ricordi di Alice, messi su carta, esorcizzano il dolore della perdita della figlia molto più che terapie e farmaci vari.Il punto è capire dove questa restistuzione fallisce. E dove funziona veramente. Le parole sono il segno che siamo esistiti davvero, sono la traccia più tangente della memoria e l’unico modo, a volte, per avere una qualche forma di giustizia».

In questo romanzo, rispetto al precedente, il linguaggio si è fatto più asciutto, a tratti duro, spigoloso; pare quasi si sia adattato ai personaggi che lo popolano. C’è molto puntiglio, molto dettaglio, nelle descrizioni. E hai eliminato anche i segni di interpunzione che staccano discorso diretto e indiretto. Tutto fila veloce, martellante, con ritmi televisivi viene da dire.

«Ho scelto volutamente questo modo di scrittura, proprio per ridurre al minimo le pause e tenere alta la tensione. Mi è venuto naturale omettere due punti e virgolette; volevo essere essenziale e temevo che usandole avrei perso di forza, di efficacia. Non avevo modelli particolari in mente».

Questo è anche un libro “politico”, un libro di denuncia. E non solo contro i mali della finanza spregiudicata, ma anche contro la giustizia-tartaruga, contro una società – quella italiana – che si è ormai identificata, nel bene e nel male, nel presidente del consiglio come spiega Ettore Palazzi nel suo libro, guardacaso intitolato Noi tutti siamo Berlusconi e pubblicato per i tipi di una fantomatica casa editrice di provincia (rigorosamente a pagamento) Grandezze Italiane...

«È vero. Volevo toccare anche il tema dei tempi incerti e infiniti della nostra macchina giudiziaria, della fatica, quando non dell’impossibilità, di ottenere la giusta pena e il risarcimento; volevo puntare il dito contro le logiche del commercio, che sta stritolando anche l’editoria, dove chiunque – se paga – può pubblicare qualsiasi cosa, senza un minimo di attenzione al valore, alla qualità di quanto si scrive. Volevo criticare il degrado di una società che pare aver tutto banalizzato, in cui si vive, si lavora, si mangia, si muore come da Mc Donald’s: in fretta, con sapori posticci, risate fasulle per contorno: Happy Italy, appunto.

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ILARIA ROSSETTI, Happy Italy, Giulio Perrone Editore, Roma 2011, pp. 288, 13 euro

È in libreria da oggi per i tipi di Giulio Perrone Editore Happy Italy il nuovo romanzo della lodigiana Ilaria Rossetti, che prende le mosse da Bancopoli. L’abbiamo intervistata

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