La partita diventata romanzo dei “duellanti” Borg McEnroe
In sala il film che racconta i due grandi campioni di tennis e il loro epico incontro del 1980
Quella partita era già cinema mentre i “duellanti” la stavano giocando. Se la ricordano (ce la ricordiamo) generazioni intere di tifosi (oggi ex ragazzi) che sanno collocare esattamente nella memoria quel pomeriggio di inizio luglio del 1980 e dove si trovavano mentre Borg e McEnroe si sfidavano sul centrale di Wimbledon, per cinque infiniti set che avrebbero deciso molto più del prestigioso titolo assegnato sull’erba. Quella è stata “la partita”, l’incontro perfetto, una specie di spartiacque e siccome «ogni partita è il riassunto di una vita» - come ha scritto un altro che ha trasformato il campo da tennis nel posto per un racconto epico - è stata molto di più e molto altro: una battaglia tra angeli e demoni, tra il fuoco e il ghiaccio, separati solo da una rete, in un pomeriggio di 37 anni fa.
Borg McEnroe, solo così, togliendo tutto il superfluo e senza bisogno di aggiungere molto: parte da quella partita il regista Janus Metz Pedersen per raccontare nel suo film la storica rivalità tra i due campioni di tennis ma subito va a ritroso per costruire il ritratto di un confronto che fu epico, letterario, e attraverso esso ripercorrere un’epoca irripetibile, per lo sport e non solo. Il campo da tennis come metafora perfetta della vita insomma, con due giocatori divisi da un filo quasi invisibile: il buono e il cattivo, il bene e il male, e due protagonisti - Borg e Mac - che sembravano esser stati inventati dal più bravo dei romanzieri per incarnare le rispettive parti. Uno il campione biondo e di ghiaccio, apparentemente senza emozioni, capace di distruggere ogni avversario martellandolo dalla linea di fondo campo; l’altro il monello del circuito, tutto estro, colpi d’attacco, insulti e sfuriate, una rockstar con il “serve and volley” al posto della chitarra. Ma era davvero “solo” questo? Così esatta e semplice la definizione dei ruoli?
Il film utilizza continui flashback per rimandare la palla dall’altra parte del campo e tornare al passato, ribatte punto su punto anche se sembra approfondire maggiormente la figura del campione svedese, quella che appariva più chiara ai tempi della famosa partita e che in realtà, oggi è noto, era quella che nascondeva i lati più indecifrabili. Il regista racconta il Borg ragazzino di famiglia povera che spaccava le racchette e veniva sospeso dal circolo del tennis, descrive nei silenzi e nello sguardo di un mimetico Sverrir Gudnason quello che fu il prototipo del campione moderno, meticoloso, maniacale, allenato per lanciare palline direttamente nel futuro. Non solo due modi opposti di concepire il gioco: dall’altra parte il giovane americano che urlava e insultava gli arbitri, un attaccante puro nato per scardinare le regole del campo e della società.
Borg McEnroe crea un’empatia immediata sfruttando la somiglianza dei due attori (impressionante Gudnason) e riesce nella difficile impresa di tenere alta la tensione persino sul punteggio di una partita che è noto a tutti. Filmando il tennis in maniera assolutamente spettacolare (cosa rara). Sarebbe un errore comunque derubricare questo a “semplice” film sportivo, più giusto dargli la dimensione di un grande romanzo popolare capace di oltrepassare la barriera del tempo, grazie ai suoi due protagonisti, “duellanti” eternamente giovani che quel tempo hanno saputo fermarlo in un pomeriggio di luglio.
Lucio D’Auria
Borg McEnroe
Regia di Janus Metz Pedersen
con Sverrir Gudnason, Shia LeBeouf
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