Hawking funambolo ai confini dell’universo

Stephen Hawking vive “sospeso” su un filo tirato da una parte all’altra dei confini dell’universo. Anche lui un “Man on wire”, come Philippe Petit che camminò su un cavo sospeso tra le Torri gemelle, come ha raccontato James Marsh nel bellissimo documentario che aveva quel titolo. Deve esser stato quel filo a portare il regista fino alla storia dello scienziato dei buchi neri, a convincerlo a raccontarne la vicenda chiusa oggi in La teoria del tutto, il film che sugli schermi ha ridato luce alla figura dell’autore di Dal Big Bang ai buchi neri. Figura ricostruita qui attraverso i ricordi della prima moglie Jane Wilde raccolti nella biografia Travelling to Infinity: My Life With Stephen che fa da solita struttura alla pellicola

Troppo complicato raccontare l’universo con formule e numeri a un pubblico di non addetti ai lavori, ha spiegato Hawking nella prefazione al suo libro più noto. Troppo complesso portare le sue teorie sullo schermo e renderle accessibili a tutti, deve aver pensato a sua volta Marsh che ha scelto quindi una prospettiva completamente differente, percorsa a rischio di far infuriare i più accaniti fan che aspettavano al varco il film sul geniale scienziato.

È un Hawking intimo quello che esce dalla narrazione, descritto a partire dai primi anni a Cambridge, proprio poco prima dell’incontro con Jane. Uno studente di cosmologia, «la religione per atei intelligenti» come racconta lui stesso. Giovane e felice prima della diagnosi terribile della malattia che, dissero nel 1963, gli avrebbe lasciato solo due anni di vita…

«A Jane» è la dedica che apre Dal Big gang…, un omaggio che chiarisce l’importanza del rapporto che è il cuore di questo film e che in qualche maniera lo legittima: un diario intimo, un ritratto familiare che non si misura con i misteri dell’universo ma che invece prova ad esplorare quelli del cuore. Calcando qua e là la mano, e spingendo sulla cifra della commozione, lasciando purtroppo in secondo piano le molteplici altre sfumature che il personaggio avrebbe invece potuto offrire.

«A parte la sfortuna di contrarre la mia grave malattia dei motoneutroni (che lo obbliga su una sedia a rotelle e a parlare attraverso un sintetizzatore vocale) sono stato fortunato sotto quasi ogni altro aspetto» è la disarmate sintesi dello stesso Hawking per descrivere la sua condizione. Una mente raffinata e uno studioso perennemente in anticipo che si è definito non credente ma che è stato nominato membro della Pontificia accademia delle scienze. E che per chiudere il suo libro più noto che pone interrogativi sul mistero dell’universo ha messo in contrapposizione la scienza e la «mente di Dio». Tutto questo è solo sfiorato da La teoria del tutto che è innanzitutto uno di quei film che con una scorciatoia si definiscono “di recitazione”. Un’opera che mette gli interpreti in una doppia posizione: semplice perché alle prese con personaggi bellissimi e in grado di commuovere lo spettatore. Ma allo stesso tempo difficilissima perché li costringe a trovare una misura, a calibrare la recitazione per non strabordare, per non cadere nella trappola finendo per risultare finti. Compito pienamente assolto da Eddie Redmayne e Felicity Jones che restano senz’altro la nota più lieta del film. Seguendo lo stesso percorso sarebbe stato lecito invece aspettarsi più coraggio dal regista dell’acclamato Man on wire, che sembra invece aver lasciato da parte la “follia” del funambolo per seguire, scendendo dal filo, una strada assai più sicura e convenzionale.

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