“Gravity” ha già incantato il Lido

La storia di due astronauti alla deriva nello spazio,

tormentata opera del regista Alfonso Cuaròn,

entra di diritto nella categoria dei kolossal d’autore

Come gli amanti disperati di Kitano due astronauti vagano nello spazio legati da un cordone di sicurezza che li tiene uniti e attaccati alla vita. Inizia nel segno del kolossal d’autore la 70esima edizione della Mostra del cinema di Venezia, mantenendo quanto promesso (almeno al primo giorno…): Gravity di Alfonso Cuaròn porta al festival la giusta miscela qualità, spettacolo e divi che il direttore Barbera aveva messo come condizione per la “sua” rassegna. Ardita e complessa opera di genere, Gravity è un dramma fanta-filosofico, in 3D, girato in maniera ineccepibile e a tratti con soluzioni sorprendenti, che racconta l’odissea dei due astronauti Ryan Stone (Sandra Bullock) e Matt Kowalsky (George Clooney) che alla deriva nello spazio, all’esterno della loro navicella andata distrutta, cercano una maniera per tornare a casa. Sospesi a 600 chilometri di altitudine sul pianeta, legati uno all’altra, con poco ossigeno e nel silenzio totale dello spazio la domanda che si possono fare è sempre e solo una: «C’è qualcuno?».

Un grido, un’invocazione che rimbomba nei loro caschi e che si perde chissà dove, e che dà il senso di disperazione e di ricerca dei due personaggi che hanno fame d’aria e di vita mentre guardano da lontano la Terra, la loro casa, così lontana e irraggiungibile.

Semplice, blu e impossibile da toccare: il pianeta che i due hanno lasciato per la missione (la riparazione di un satellite in orbita) è al contrario sin dalla prima scena un personaggio aggiunto, autentico protagonista muto immerso nel buio dello spazio.

Si riflette nei caschi, nelle pupille degli astronauti, viene inquadrato dall’oblò di un portellone, è la meta che i due sopravvissuti cercano di raggiungere, la casa, la terra dove poter “riaffondare” i piedi, l’oceano all’interno del quale poter riprendere vita e respiro.

Ci ha messo 5 anni per pensarlo e realizzarlo il regista Alfonso Cuaròn e ha richiesto un’opera assai complessa per ricreare l’effetto dell’assenza di gravità e per coordinare il lavoro degli attori con quello dei tecnici, ma alla fine Gravity è un film riuscito e decisamente avvincente. Un esempio di kolossal d’autore che sceglie la strada del genere, la fantascienza (che al festival avrà almeno un altro importante “seguito”) e che seguendo l’esempio di grandi classici mette in un sottotesto molti temi: la ricerca di un senso da dare alla vita e il confronto con la morte innanzitutto, il legame che può salvare e la necessità di risposte a quesiti assolti, primordiali.

Il regista uccide e poi fa rinascere i suoi personaggi, li spedisce in orbita in una bolla tridimensionale senza aria e senza rumori, li tiene aggrappati per un cavo, una corda che può essere la salvezza ma anche la loro condanna ma sempre, sullo sfondo o in primo piano, tiene lo sguardo su quel pianeta lontano e su quelle poche domande senza tempo. Domande che anche senza gravità rimbombano ad alto volume, mentre le sagome degli astronauti si allontanano in sequenze di grande bellezza e spettacolarità, come quel primo lunghissimo “piano” iniziale lungo 17 minuti che toglie il fiato.

Lucio D’Auria

VENEZIA 70 - Come gli amanti disperati di Kitano due astronauti vagano nello spazio legati da un cordone di sicurezza che li tiene uniti e attaccati alla vita...

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