Gli Stati Uniti alla sbarra assieme ai “7 di Chicago” tra dramma, realtà e satira

LA RECENSIONE: Il film di Sorkin racconta il processo per i disordini del ’68

«Non sono mai stato processato prima d’ora per i miei pensieri». Abbie Hoffman è uno dei leader della sinistra radicale americana e ha appena fatto tremare le colonne di un’aula di giustizia. Quella in cui lo stanno processando per gli scontri di Chicago del 1968, lui con gli altri “Chicago seven”.

Parte ancora una volta da un fatto reale, da una storia vera, Aaron Sorkin per la sua seconda volta dietro la macchina da presa (dopo “Molly’s game”, e anche lì si parlava di America da una prospettiva non consueta). Sceneggiatore pluridecorato - da “Codice d’onore” a “The west wing” per la tv - Sorkin è la firma dietro di film come “The social network”, “Moneyball” e “Steve Jobs”: cinema di scrittura quindi, come questa sua seconda prova da regista affrontata, si diceva, partendo da un fatto vero, il processo ai “sette di Chicago” (che poi erano otto con il leader delle Pantere Nere Bobby Seale) portati in aula con l’accusa di incitamento alla sommossa e cospirazione per le manifestazioni e gli scontri del 1968 durante il congresso del partito democratico a Chicago.

«In strada erano scoppiati gli anni ’60, la politica (i tribunali) erano ancora fermi ai ’50»: è sempre Hoffman a spiegare cosa si sta celebrando in quell’aula, cosa sta succedendo nel Paese, come stanno cambiando gli Stati Uniti, e perché questo processo è centrale per capire quel punto di svolta. «Non esistono processi politici» gli fa eco Tom Haden, il leader del movimento studentesco (che vent’anni dopo sarebbe stato eletto senatore) prima di doversi arrendere all’evidenza.

Da tutto questo materiale Sorkin decide di tirar fuori un film assai diverso da quello che ci si potrebbe aspetterebbe. Pigia forte sul pedale dell’ironia in partenza, mette in satira descrivendo i personaggi della politica («studentelli petulanti e pericolosi» apostrofa gli accusati il procuratore generale Mitchel) e soprattuto l’improbabile corte che guida il processo. Sceglie l’antifrasi, usa l’ironia per rievocare fatti drammatici, ma facendo così si addentra in un terreno sconnesso e la materia (soprattutto in avvio) sembra sfuggirgli di mano, mentre qualche carattere diventa quasi una “maschera”.

Una scelta - certo - quella di mettere in ridicolo la parte giudicante di questa vicenda, che sin dal principio mostra di voler pilotare il processo, che però fa tremare il cuore del film e spiazza lo spettatore senza farlo indignare per il processo farsa che si sta celebrando su quei fatti realmente accaduti e assolutamente degni di quella indignazione.

Questa dissonanza accompagna tutto il film anche quando il tono cambia e le immagini di repertorio riportano la drammaticità dei fatti. Intendiamoci: tutto è voluto, tutto funziona come un meccanismo di precisione, anche perché come detto Sorkin è una delle penne migliori del cinema americano. E infatti anche in questo “Processo ai 7 di Chicago” non ci sono errori, non ci sono personaggi mal disegnati o situazioni che non reggono. L’emozione è forte e il cast è stellare (da Sacha Baron Cohen a Mark Rylance fino a M Keaton). Però quella dissonanza fatica ad abbandonare la mente, quando siamo ai titoli coda e scorrono le biografie che raccontano quale destino la vita (e la giustizia) ha riservato ai “sette di Chicago”.n

Il processo ai Chicago 7

regia A. Sorkin

Netflix

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