“Giacomino” Poretti a Lodi

Oggi, a 59 anni, Giacomino Poretti è alto poco più di un “vaso di gerani”. Ma di quello che in apparenza viene considerato un difetto («Da bambino il medico diceva a mia madre che ero particolarmente linfatico: e così mi spedivano due mesi in colonia al mare, ma sembrava di essere in un campo di concentramento») l’attore di Busto Garolfo, “il 33,3%” del trio comico con Aldo e Giovanni, ha fatto un punto di forza. Da ragazzino, a 9 anni, fu scelto dalla compagnia teatrale dell’oratorio per recitare la parte di un bambino piccolissimo («E chi altri poteva farlo? Ero il più basso del paese»), primo passo verso una carriera fulminante che lo ha portato nel gotha della comicità nazionale.

Ma il percorso è stato tortuoso, accidentato, perché fino a 30 anni il piccolo grande Giacomo ha svolto i più disparati lavori, dall’operaio in fabbrica all’infermiere. Tutto però è partito dall’oratorio, luogo che, negli anni ‘60, in un piccolo paese alle porte di Milano aveva una «funzione sociale vastissima», come ha raccontato l’attore durante la piacevole chiacchierata con Stefano Levantino, presidente dell’associazione Attivamente, in scena ieri sera sul palco dell’auditorium Tiziano Zalli. Un incontro che ha divertito ma anche commosso gli spettatori, intervenuti per scoprire un altro lato della poliedrica personalità di Poretti, l’inventore di “maschere” celebri come Tafazzi o Mister Flanagan, nonché protagonista di film-culto come Tre uomini e una gamba» o Chiedimi se sono felice. «Negli anni ‘60 non esistevano le tate. I ragazzi, appena dopo pranzo, andavano all’oratorio. Don Giancarlo era la tata di tutti. Lì si imparava a giocare a pallone, il catechismo, ma soprattutto a stare insieme». Una storia che Poretti ha raccontato nel suo libro autobiografico Alto come un vaso di gerani (Mondadori 2012), volume nato dopo la pubblicazione di alcuni suoi scritti, tra i quali la famosa lettera indirizzata all’arcivescovo di Milano Angelo Scola, sulle pagine de «La Stampa». «Mi è sempre piaciuto a scrivere, già ai tempi della scuola me la cavavo benino con i temi. Per una serie di circostanze sono stato contattato da un editor di Mondadori: è stato come realizzare un piccolo sogno, perché nel cassetto avevo già diverse cose. La motivazione profonda che mi ha spinto a scrivere il libro è stata però la nascita di mio figlio nel 2006: volevo rassicurarlo sulla vita, che è sì piena di casini e imprevisti, ma anche molto, molto affascinante».

Tra una battuta e l’altra (Poretti, interista di ferro, ha minacciato scherzosamente di lasciare il palco quando una volta scoperto che Levantino è tifoso della Fiorentina) l’attore ha poi affrontato i più svariati temi, primo fra tutti il rapporto con Dio. «Per chi come me passava due mesi in colonia al mare, la fede in Dio era una necessità - ha scherzato Poretti, dilungandosi su quel tragicomico periodo -. E poi l’oratorio ha svolto una funzione straordinaria: se non l’avessi frequentato, non so dove sarei finito. All’oratorio ho scoperto anche il teatro». Un amore risbocciato da adulto, quando Poretti decise di lasciare il posto fisso per tentare la strada dello spettacolo. «A me è andata bene, ma ci tengo a dire che non bisogna mai vergognarsi di sognare cose che sembrano impossibili. La vita è imprevedibile. In negativo, ma anche in positivo».

© RIPRODUZIONE RISERVATA