“Ghera una musca bifusca”

Ci ha insegnato che il dialetto è la lingua dei padri

I miei primi splendidi compagni di giochi, conosciuti in un vecchio asilo infantile di paese gestito dalle suore, parlavano tutti il dialetto. Io no. E se tornavo a casa e ripetevo soddisfatto qualcuna di quelle parole incomprensibili ascoltate da quei nuovi piccoli amici, venivo subito redarguito: «Non ripeterlo più! Tu devi parlare l’italiano!». I miei genitori - papà impiegato “di concetto” e mia madre maestra elementare - esigevano che mi esprimessi solo con quello.

L’italiano era la lingua dell’Italia del dopoguerra, quella della radio e delle trasmissioni televisive del Musichiere. Parlare italiano ti avrebbe permesso di ritagliarti un posto in banca o in qualche ufficio statale. Il dialetto no, era solo dei poveri, degli ultimi, di quanti con difficoltà si sarebbero fatti strada nella vita.

E così a casa mia, a cena, seduti in tre attorno a un tavolo, i miei genitori tra loro discorrevano tranquillamente in dialetto, ma quando la discussione mi coinvolgeva, a me si rivolgevano solo in italiano. E in lingua italiana erano i fumetti di Tex e del Principe Valiant, i libri di Giulio Verne e di Salgari (che mi venivano regalati) e quelli di Ada Negri e di Gabriele D’Annunzio (che sottraevo dalla biblioteca di casa e che leggevo di nascosto).

In lingua italiana doveva saper scrivere chi da grande avesse voluto fare il giornalista...

Grande fu la mia meraviglia quando Luigi Albertini passò a prendermi - avevo poco più di vent’anni - per portarmi a Senna Lodigiana, nel salone del cinema Rex, per farmi assistere a una commedia dove, mi disse, «recita un mio amico». Il suo amico era un tipo sveglio che, ritto sul palco, si faceva chiamare Cècu e vestito da contadino e con la pipa in bocca, parlava rigorosamente in dialetto. Solo in dialetto. Il dialetto dei miei compagni di scuola. E lo faceva, sul proscenio, con il medesimo impegno e lo stesso slancio con cui gli attori di teatro interpretavano, in quegli anni, le opere di Giovanni Testori.

Fu nel cinema Rex di Senna Lodigiana, seduto in prima fila su sedie di legno cigolanti, che incontrai per la prima volta Antonio Ferrari. Che mi fece capire come il dialetto fosse anche amore e poesia, profumo ed esistenza, storia di un popolo e racconto di vita vissuta.

In un’epoca nella quale era vietato parlare in dialetto, lui, Cècu, lo declamava come se fosse il trentesimo canto della Commedia in cui Dante incontra Beatrice. Parlare in dialetto per lui significava tenere in vita una cultura contadina, la nostra, che le serate televisive delle gemelle Kessler stavano cancellando per sempre.

Non ha mai avuto grandi ambizioni, Cècu, in questa sua caparbia volontà di salvare dall’estinzione la lingua dei padri. Il suo studio approfondito lo ha lasciato ad altri - ad Alessandro Caretta e a Bruno Pezzini - comprendendo che la sua missione era un’altra: girare nelle aie e nelle piazze, nei teatrini degli oratori e nei saloncini municipali, per far risentire le barbine dei mungitori e le tiritere delle mondine. Quante volte, nelle case di riposo, davanti a volti scavati dagli anni e inebetiti dai tranquillanti, è bastato a Cecu iniziare a recitare l’incalzante scioglilingua della muscabifusca, per far accendere di colpo decine di occhi, fino a farli bagnare di pianto...

Se da undici anni, tutti i mercoledì, «Il Cittadino» pubblica in prima pagina uno o due articoli in dialetto lo dobbiamo a Cecu, che ci ha convinti e stregati.

Del teatro Gioele Losio, della compagnia dei Soliti, delle rassegne teatrali in dialetto, del premio di poesia in dialetto - che durano da trent’anni - altri scriveranno, nei prossimi giorni. E a noi piace pensarlo ancora vivo, Antonio Ferrari. E chiudendo gli occhi ci sembra di risentirlo, con la sua voce roca: «Ghera una musca bifusca birlichefutusca...».

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