Franco Razzini conquista New York

Le immagini andranno ora a fare compagnia in Madison Avenue a quelle dei maestri Cartier Bresson e Doisneau

«Hallo, parliamo con il signor Franco Razzini? Qui è la Keith De Lellis Gallery di New York». Così, sei mesi fa e senza alcun preavviso, il fotografo lodigiano si è sentito interpellare da una delle più note gallerie fotografiche della Grande Mela, un tempio del settore nel cuore di Manhattan. «Abbiamo visto la sua foto Luci e ombre (uno scatto del 1973 dall’affascinante controluce) sull’annuario Fiaf, e altre immagini pubblicate sul più diffuso mensile di fotografia di Pechino. Vorremmo incontrarla per acquistare alcuni suoi scatti. Potrebbe riceverci a Lodi intorno alla fine di luglio?». Ed ecco che, lo scorso venerdì, con impeccabile puntualità anche rispetto all’orario prefissato, un esponente della galleria accompagnato da un’interprete ha suonato il campanello di casa Razzini. Un incontro che ha lasciato nel decano dei fotografi lodigiani, ottantaseienne pur avvezzo a tanti premi di prestigio (uno per tutti l’onorificenza “Excellence de la Federation Internationale de I’art photographique”) la gratificazione di un riconoscimento di grande rilievo quanto inaspettato. Sul tavolo le fotografie, momenti sparsi del lungo percorso compiuto dall’obiettivo razziniano o inquadrature componenti le sue serie tematiche ormai ben conosciute dai lodigiani; e non solo, data la loro pubblicazione su libri e riviste internazionali del settore, oltre che in celebri raccolte. Gli americani osservano, sfogliano, scambiano impressioni. La piazza di Lodi con le sue architetture e i personaggi. La città bassa. Il mercato. Gli artisti. Le donne. I paesaggi assolati del sud Italia e gli scorci della Liguria. L’obiettivo sulle strade di Londra e sulla Bretagna. Ma le mani e gli occhi dei due visitatori tornano sempre su una serie di scatti in bianco e nero, datati 1970. L’umanità così cara all’obiettivo di Razzini, che ha fatto della macchina fotografica una sorta di appendice della propria persona tanto che non esce di casa senza l’apparecchio, al suo collo e pronto all’uso anche mentre parliamo, ha per sfondo i binari dei treni; vagoni e pensiline, finestrini e panchine. È il ciclo dedicato alla Stazione Centrale di Milano, guarda caso quello che Razzini sempre cita come la serie che, costretto a scegliere, salverebbe tra tutte. Una breve trattativa, e la Keith De Lellis Gallery acquista ventidue scatti che andranno a fare compagnia in Madison Avenue a quelli storici dei “maestri” di Razzini, Cartier Bresson e Robert Doisneau, di Irving Penn e di Man Ray, degli italiani Giacomelli e Migliori. Nelle fotografie è fissato un pezzetto di vita italiana, quella dell’immediato post Sessantotto della protesta, nel clima del boom economico e del nascere degli anni di piombo. Con il talento capace di cogliere nell’attimo un tempo e una storia, Razzini immortala in bianco e nero i viaggi per la villeggiatura e i giovani in partenza per la “naja”, le ragazze in minigonna e gli emigranti, i pantaloni a zampa di elefante e i bambini festanti al finestrino. Inquadrature, luci, piani, prospettive, resa comunicativa: tutto si delinea per Razzini nello spazio di un clic. Ma è un clic che racchiude oltre sessant’anni di esperienza di un autore alieno da manipolazioni digitali, vero purista della fotografia.

Marina Arensi

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