Ecco il mondo a tinte rosa

C’è la capitana e c’è la sergente, e ci sono la medica legale e la pastora. E c’è ovviamente Dea, con l’esclamazione-tipo cui i protagonisti - pardon, le protagoniste - del libro si lasciano andare («Dea mea!»). È il mondo giusto, anzi il “giusto mondo” di cui racconta (sin dal titolo) nel suo romanzo Laura De Benedetti, giornalista lodigiana (è in forza al «Giorno») all’esordio nella narrativa.

Il “giusto mondo”, come si sarà capito e come emerge fin dalla copertina del volume, in cui il celeberrimo uomo di Vitruvio leonardesco è rappresentato con le fattezze di una donna pettinata alla rinascimentale, è un mondo “in rosa”, un mondo di donne. Le donne decidono se e quando avere delle figlie, con o senza uomini, grazie a un kit per l’autoinseminazione. La religione, la società si aspettano che restino vergini, cioè indipendenti. Lo ribadisce la massima autorità spirituale, lo si evince dalle fiabe raccontate alle bambine. Se le donne non generano la vita non possono fare carriera. Il matrimonio è mal tollerato perché considerato sinonimo di sterilità della specie.

Gli uomini, d’altro canto, svolgono i lavori più umili, chiedono pari opportunità sociali. Vengono loro trattenuti in busta paga i costi di crimini e vandalismi.

Un mondo, una società, ribaltato, dunque. Specularmente, in tutti gli estremi. Un’utopia?

«No. Può essere semmai una distopia. Si tratta evidentemente di una provocazione. Propongo un modello di società matriarcale che, lontana dall’essere effettivamente “giusta”, ripropone al maschile le istanze tipiche del femminismo odierno. Non è certo quello il “giusto mondo” cui ambire. Ma attraverso la provocazione voglio far passare contenuti forti e indurre alla riflessione sulle storture dell’oggi, in Occidente (e in Italia) come nei Paesi più arretrati.».

Qualche esempio?

«Penso in particolare al problema del fare carriera vincolato alle scelte della maternità, che io qui ribalto completamente al pari di quello sul rinvio delle nascite, tipico della società occidentale, che non a caso sta invecchiando inesorabilmente».

Il libro fa precise scelte stilistiche, a partire dalla forma del giallo per finire col linguaggio, anch’esso marcatamente “femminile”.

«Sì. Ho intrapreso la strada del giallo perché è un po’ una mia passione e perché volevo far passare certi concetti senza annoiare il lettore, ma anzi tenendolo ben agganciato alla trama, che ruota su un femminicidio. L’idea del romanzo è nata proprio dall’aver frequentato, come giornalista, decine di convegni, incontri, dibattiti sulle pari opportunità sempre limitati a un ristretto pubblico di addetti ai lavori. Quanto alle scelte lessicali, il libro è scritto utilizzando un linguaggio al femminile. Per farlo ho preso come riferimento il testo governativo Raccomandazioni sull’uso non sessista della lingua italiana realizzato da Alma Sabatini nel 1987 per la Presidenza del Consiglio che, ad oggi, non ha mai trovato applicazione. Sono convinta che proprio dalla scelta delle parole possa partire una vera rivoluzione culturale».

Le donne, nel libro, sono impegnate anche in un’azione di pacificazione planetaria.

«Si, credo che le donne, generando la vita, abbiano un senso più forte della pace e della fratellanza, siano meno violente. Volutamente, poi, il romanzo non ha riferimenti geografici o di nazionalità: i nomi appartengono a culture diverse, i cognomi sono stati evitati per non circoscrivere un luogo d’origine. Anche i Paesi più progrediti rispetto alla parità tra i sessi hanno, infatti, un potenziale interesse verso il “giusto mondo”».

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