Se fossi Umberto Eco e non so dire se è fortuna o meno (e la intendo alla latina, cioè come sorte) proverei a scrivere una piccola fenomenologia di Marco Liorni, Stefano De Martino e Gerry Scotti. Forse allargherei il discorso anche ad Alberto Matano e Milly Carlucci. Al momento altri in mente non me ne sovvengono. Di certo la classificazione tra “apocalittici e integrati” tra costoro non farebbe per niente difetto. Infatti, a guardare bene tutti i loro programmi sembra di essere tornati all’inizio degli anni sessanta, a quella mediocrità che sembrava essere ad appannaggio del solo Mike Bongiorno. Piccola deviazione: chissà chi lo ricorda più, sebbene e vado a memoria lo scorso anno o tutt’al più l’anno ancora precedente si sono celebrati anche con una mostra i cento anni della nascita. Di certo, tornando in pista principale, di eredi ne ha lasciato pochi o meglio nessuno. O meglio ancora, un tutti quelli citati un po’ di Mike c’è. A brandelli ma c’è. Soltanto che bisogna attivare antenne capaci di cogliere le più sottili sfumature per individuarne i pezzi. Eppure, qualcuno, caro lettore di questo spalto rialzato sul mondo dei media, vecchi e nuovi, potrebbe obiettare (giustamente, anche spostando a 360° le prospettive di visione) che tutti i conduttori convocati in questa virtuale aula hanno trasmissioni molto diverse tra loro e che soltanto alcuni possono essere ricondotti al genere del quiz, oggi diventato game-show. Non fa una grinza tale posizione, soltanto che nel giudizio di valore, cioè quella della più o meno conclamata mediocrità toglie di mezzo qualsiasi prova a sfavore, tanto da sentirsi se non uguali vicino alla normale quotidianità di chi è dall’altra parte del video. (a cura di Fabio Francione)
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