Avati: dialogo tra cinema e fede

«Senza sogni e illusioni l’uomo rischierebbe di arrendersi»

«In un mondo che ci vuole numeri, contati come auditel e consensi elettorali poco importa chi siamo: l’unicità dell’essere umano sta nella sua identità, unica, irripetibile, eccezionale. E allora, il senso dell’esistenza, la differenza tra chi è realizzato e chi non lo è, sta tutta lì, nella capacità di riuscire a raccontare del proprio io, di dar voce al proprio talento. Perché ognuno ne ha uno». Non ha dubbi il regista Pupi Avati, ospite d’onore sabato pomeriggio dell’oratorio di Camairago, in un evento organizzato dalle parrocchie dei Santi Cosma e Damiano di Camairago e di San Bartolomeo di Cavacurta. Lui, l’uomo di cinema che ha sempre rivendicato la sua fede - cattolica e praticata - assicura di aver provato tutto il giorno a memorizzare il nome della landa della Bassa, ma alla fine si avventura in un «Cavriago» che suscita l’ilarità del pubblico che si stringe ancora più al palco. Nella Bassa ci è arrivato grazie alla mail di don Pierluigi Rossi, «che mi ha sfidato e incastrato dicendomi “so che non mi risponderà” - spiega lui, davanti alla platea calorosa -: un grande attore come Tognazzi mi ha insegnato che una relazione interpersonale è vera quando non si parla di successi, ma di debolezze e difficoltà. E allora il nostro incontro di oggi è importante perché io e voi siamo qui, abbiamo sfidato il tempo e le distanze e ci confrontiamo». Non soltanto sul cinema, anzi. In un dialogo - quello con Lucia Bellaspiga, giornalista di «Avvenire», e don Pierluigi Rossi - è un’esplorazione a 360 grandi nella vita secondo Avati, «per raccontarvi quelle due o tre cose che so» anticipa. La più importante tocca senso e direzione dell’esistenza, che lui ha inseguito e raggiunto raccontando storie attraverso la macchina da presa e la pellicola. «Perchè penso che sia molto importante riuscire a dire chi siamo prima di andarcene, per non vivere la nostra vita da spettatori - aggiunge appassionato, mischiando pezzi della biografia, aneddoti professionali e meditazioni - e dobbiamo farlo attraverso il nostro lavoro, che sia il regista, il giornalista, il parroco o il meccanico. Nel mio immaginario il meccanico “vero”, quello che ci mette passione e ha talento, accende il motore dell’auto e si mette in ascolto per poi alzare il dito e indicare il problema». Lui ha capito qual era il suo talento solo dopo aver abbandonato il sogno di diventare musicista. Erano gli anni Sessanta e lui voleva diventare un grande jazzista fino all’arrivo nella sua band di un ragazzino che si chiamava Lucio Dalla. «Lui mi ha fatto capire la differenza tra passione e talento - ricorda -: io studiavo, ascoltavo musica, facevo tutto quanto era necessario per indurre il Padreterno a darmi quel dono che pensavo di meritare, il talento appunto. Lui no, non faceva niente di tutto questo e se allora lo odiavo perché si era messo tra me e il mio sogno, poi l’ho ringraziato». L’urgenza, per tutti, è dunque capire quale sia il proprio talento prima che la vita finisca. E se dal talento nasce poi il successo, per ricordarsi di essere sempre e comunque uomini prima di tutto, «a me basta pensare di essere prima di tutto un musicista fallito e poi un regista - argomenta -: tenere i piedi per terra mi consente di raccontare storie in cui le persone si possono riconoscere dove i protagonisti sono spesso persone piccole, semplici, ma con un grande sogno dentro, un desiderio di felicità, perchè tutti hanno il diritto di aspettarsi qualcosa di unico ed eccezionale dalla vita». Il momento in cui fare i conti con la vita è la sera, prima di dormire («in cui possiamo anche essere sfacciati con noi stessi, io per anni ho preparato il discorso in inglese di ringraziamento all’Oscar che non mi arriverà»), perché sono i sogni e «anche le illusioni a tenere in piedi intere esistenze: senza, l’uomo rischierebbe di arrendersi, di rinunciare». Per questo, secondo il regista, compie un delitto di pensiero «chi fa del proselitismo laico e cerca di togliere a chi vive ingiustizie grandi la speranza di un Dio senza il quale non possono vivere - aggiunge Avati esplorando il campo della fede - : io prego Dio di esistere non tanto per me, che ne ho comunque bisogno, ma per tutti coloro che non possono contare sulla giustizia umana e meritano un risarcimento». Come «arrogante e prepotente» sarebbe «la minoranza» che crede in modelli di famiglia alternativi: «Perchè la stragrande maggioranza della società, parliamo di milioni di persone, la pensa ancora in modo differente». Un pensiero non molto distante da quella che lui ha definito la «cultura contadina» in cui è cresciuto - che con le sue favole orrorifiche ha influenzato tanta parte del suo cinema horror - e in cui la morte non suscita orrore, ma è un passaggio della vita e il matrimonio è eterno, come il suo, nonostante le difficoltà. «Da 49 anni sto con mia moglie - spiega - e sono certo che in nessun’altra donna ci sia così tanto di me come in chi mi è vissuto accanto per tutti questi anni». Alla sua vita e a quella dei suoi genitori è ispirato il film tv Un matrimonio, in onda sulla Rai a breve: una saga di famiglia, «non molto di moda evidentemente» che racconta di un amore che supera le difficoltà e prosegue dagli anni del dopoguerra al 2005.

© RIPRODUZIONE RISERVATA