Armi, diplomazia e... virus per conquistare le Americhe

Il 13 agosto 1521 le truppe spagnole e i loro alleati conquistarono Tenochtitlán, l’odierna Città del Messico, all’epoca capitale dell’Impero azteco. Si trattava di una delle città più grandi al mondo: si stima che ospitasse quasi trecentomila persone. Più popolosa di Roma e di Parigi, poco meno di Pechino e Baghdad. Essa sorgeva sulle isolette del lago Texcoco. I terreni erano stati strappati alla laguna attraverso un complesso sistema di drenaggio e di canalizzazione, paragonabile a quello già presente a Venezia. La città era animata da mercati, fiere. Disponeva di numerose infrastrutture. E all’arrivo dei conquistadores si presentò pulitissima, poiché poteva contare su un efficiente sistema di raccolta dei rifiuti.

Hernán Cortés giunse a Tenochtitlán l’8 novembre del 1519 con poco più di 500 uomini e una ventina di cavalli. Eppure, in poco meno di due anni, riuscì a mettere le mani su una città di tali dimensioni. Quali furono le sue armi vincenti?

Anzitutto, Cortés non comandava solo i suoi uomini, ma aveva anche sfruttato i canali della diplomazia, procacciandosi preziose alleanze. Aveva profittato delle rivalità fra gli indigeni, ottenendo l’appoggio dei Tlaxcaltechi, una popolazione rimasta ai margini del grande Impero mexica (ribattezzato solo più tardi Impero azteco). Si trattava di un “Impero fiscale”: non una precisa entità politico-amministrativa, bensì un ordinamento tenuto assieme con la forza e con la costante richiesta di nuovi tributi. Un sistema piuttosto opprimente, paragonabile più all’antico Impero assiro che a quello romano. E difatti non pochi sudditi, al loro arrivo, considerarono gli spagnoli come dei liberatori, più che dei nemici. La storiografia europea si è spesso soffermata sulla superiorità della tecnologia bellica spagnola. Un elemento importante, ma non esaustivo per rispondere al nostro quesito. È innegabile infatti che la dotazione spagnola di archibugi, armi d’acciaio, nonché dei cavalli, che inizialmente spaventarono terribilmente gli indigeni, che non li avevano mai visti, assicurò un vantaggio iniziale alle truppe di Cortés. Ma ben presto gli aztechi si adattarono al modo di combattere degli avversari e questo vantaggio venne colmato, come testimoniano le sconfitte che i conquistadores patirono prima dell’assedio di Tenochtitlán.

L’elemento che giocò un ruolo decisivo, semmai, fu la diffusione del vaiolo e di altre epidemie di origine europea. Gli indigeni, infatti, sprovvisti degli anticorpi necessari a debellare queste malattie, morirono a milioni, e così la loro capacità di opporsi ai conquistadores scemò sempre di più.

Molti studiosi hanno anche messo in luce che inizialmente gli aztechi non combattevano per uccidere ma soltanto per fare prigionieri da destinare ai sacrifici umani. Una strategia che avrebbe limitato notevolmente la loro capacità difensiva. In realtà, ciò fu vero solo all’inizio delle ostilità e non comportò un limite significativo: ben presto anche gli indigeni si adattarono al modo di combattere dei loro nemici, facendo anch’essi molte vittime sul campo. Si è dibattuto molto pure sul comportamento ambiguo mantenuto da Montezuma II, l’imperatore azteco che accolse Cortés al suo arrivo, tributandogli tutti gli onori. A volte si dimostrava rassegnato e ossequioso nei confronti dei conquistadores, altre bellicoso e risoluto. Ma furono le divinazioni, sulle quali gli indigeni basavano tutte le loro decisioni politiche, a suggerigli che il suo impero era in procinto di crollare, inducendolo così a deporre le armi, portando alla fine i suoi sudditi a ribellarsi contro il suo colpevole lassismo.

A ciò bisogna anche aggiungere tutti i meriti di Cortés. Non solo la capacità di stringere alleanze con le popolazioni locali scontente. Anche il coraggio, pochi giorni dopo la grave sconfitta subita a Tenochtitlán (La noche triste), di attaccare il nemico, numericamente assai superiore, in campo aperto presso Otumba (7 luglio 1520), dando così inizio alla conquista spagnola. E poi, nella fase decisiva dell’assedio, egli ebbe la grande idea di ordinare la costruzione di alcuni brigantini per completare il blocco della città, attaccandola anche dal lago. In più fu abilissimo nella guida delle forze a sua disposizione: sfruttò al meglio la tattica e l’ordine delle sue truppe, così come l’irruenza, la conoscenza del territorio, nonché l’odio atavico contro gli aztechi dei suoi alleati indios.

Al termine dell’assedio, durato in tutto dieci settimane, la popolazione locale era ridotta alla fame e alla sete, dopo che Cortés aveva interrotto il flusso di derrate alimentari e la fornitura di acqua potabile. La città fu rasa al suolo e buona parte di ciò che restava dell’Impero azteco fu cancellato.

Questa fu la descrizione di uno dei conquistadores, Bernal Díaz del Castillo, di ciò che rimaneva di Tenochtitlán: «Quando vidi le scene intorno a me, pensai che questo era il giardino del mondo. Di tutte le meraviglie che contemplai al mio arrivo, ora non rimane più nulla. Tutto è rovesciato e perduto».

Era l’inizio del dominio coloniale spagnolo oltreoceano.

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