A Venezia la sorpresa di Locke

La straordinaria metafora cinematografica del regista

Steven Knight costruita attorno all’attore protagonista

Tom Hardy in un film che è un piccolo gioiello

VENEZIA 70 Le fondamenta per un palazzo sono tutto. La miscela di calcestruzzo indispensabile per tenere in piedi un grattacielo o un edificio di pochi piani. Ma senza le fondamenta non si regge nemmeno una famiglia, non sopravvive un’esistenza alle prese con la routine di tutti i giorni.

Ivan Locke fa le fondamenta, riempie di calcestruzzo le “casse” e prepara la base per la costruzione di palazzi e costruzioni, è un uomo solido e lucido come il comandante di una nave, detta e rispetta le regole, prende decisioni e trova soluzioni in tempi rapidi. Così almeno ce lo immaginiamo nella vita di tutti i giorni perché quando lo incontriamo è notte e lui è da solo, al volante di un’auto, mentre va incontro alla manciata di ore che cambieranno per sempre la sua vita.

Semplicemente Locke, si chiama così il film di Steven Knight fuori concorso alla 70esima Mostra del cinema di Venezia, passato sullo schermo come una delle belle sorprese di questa edizione della rassegna. Un solo uomo in scena dall’inizio alla fine (Tom Hardy), un dialogo serrato lungo tutta l’ora e mezza di film, durante la quale si dipana la vita di Ivan Locke, capo cantiere che guida e parla al telefono, e vede la propria vita modificare di continuo i suoi contorni.

Un piccolo errore e può crollare tutto: la vita intera come un grattacielo a cui sono state fatte fondamenta sbagliate. E in questa notte il grattacielo è Ivan Locke, che di calcestruzzo e di miscele capaci di tenere in piedi centrali nucleari se ne intende. Ma le crepe sono già comparse alla base dei suoi piedi e le voci che si accavallano al telefono gli confermano tutta la fragilità del suo progetto.

È un piccolo e straordinario film quello di Steven Knight, un lungo monologo sulle decisioni da prendere, sulle scelte e sulle responsabilità, temi concentrati in un testo che mantiene alta la tensione pur avendo pochissimi elementi a disposizione. Il viso dell’attore protagonista certo, ma soprattutto una struttura narrativa che ha davvero fondamenta di cemento armato. Un’opera di scrittura, insomma, che invece di assomigliare a un monologo teatrale, fa l’effetto di un thriller ad altissima tensione.

Mentre viaggia verso il proprio destino, che comunque sta cercando di costruire con le sue mani senza lasciarselo sfuggire, Ivan Locke deve fare i conti con la giusta miscela per il calcestruzzo e con i limiti di velocità che frenano la sua corsa, sempre al centro di una metafora che gli sceneggiatori rendono in maniera fin troppo esplicita.

Ma Locke-Hardy non è solo questo: è anche un nuovo modello di “eroe” cinematografico non più solo muscoli e bell’aspetto, ma affidabilità, solidità e una granitica convinzione dei propri mezzi su cui far poggiare le insicurezze altrui e del pubblico.

Un “supereroe” umanissimo che ammette i propri sbagli e che cerca di riavvolgere il nastro della propria vita.

Lucio D’Auria

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