A tutta velocità nella corsa per la vita

Asfalto, polvere, sgommate. Puzza di benzina, di grasso e di olio, sulla tuta e sotto le unghie. Profumo di strada e di “provincia”. E poi macchine, tante, roventi, che corrono «veloci come il vento», lanciate e imprendibili come il film di Matteo Rovere che sbuca dietro una curva, all’improvviso, con un rumore assordante che non si può ignorare. Una bella sorpresa questa incursione nel mondo dei motori del regista romano (ancora giovane – 34enne – ma già al terzo film) che abbandonata l’aria di casa sembra spiccare letteralmente il volo una volta respirata quella che soffia nella terra dei piloti e dei bolidi, quell’Emilia Romagna che in questo caso sembra ancora al confine con il west.

Veloce come il vento è un film raro sullo sport (l’automobilismo del campionato Gran Turismo in particolare) ma non solo perché se ne contano sulla punta delle dita di una mano in Italia; raro perché è un’incursione nel “genere” che trasuda sincerità e senza inventarsi nulla, o quasi, riesce a trascinare lo spettatore in un vortice di accelerazioni e di frenate che non dà respiro.

Ispirato a una storia vera (quella del pilota Carlo Capone talento del rally caduto in disgrazia troppo presto), poggia sul racconto fatto al regista dal meccanico Tonino Dentini (interpretato nel film da Paolo Graziosi) che ha fornito la materia su cui hanno poi lavorato (bene) gli sceneggiatori (con il regista Filippo Gravino e Francesca Manieri).

Al centro la storia della giovanissima Giulia De Martino (Matilda De Angelis), pilota in erba che si trova all’improvviso a dover correre per la sopravvivenza, sua e di quel che resta della sua famiglia. E quel che resta sono un fratello piccolo, Nino, e uno maggiore, Loris (Stefano Accorsi), pilota fallito che non è riuscito a mantenere in carreggiata l’enorme talento e per questo è finito fuori pista da un po’. La sfida per la diciassettenne Giulia sarà quella di proteggere la casa paterna dai creditori e di rimettere insieme i pezzi di questa famiglia irregolare proprio come se fossero il cilindro, le fasce elastiche, le parti di un motore che sembrava da rottamare e invece può ancora volare.

Rovere guarda più a Rocky che a Fast & furious o a Rush, disegna una storia classica di redenzione e rinascita affidandosi a personaggi che classici non sono (non tutti almeno). Lo è forse Loris, interpretato da un bravissimo Accorsi che ritrova l’accento (e la poetica disperata) di Freccia («guarda che disperati veri siam rimasti in pochi in questo mondo...») per restituire una delle sue prove migliori. È al contrario moderna, modernissima Giulia-Matilda che ruba la scena al compagno più affermato per piazzarsi al sedile del guidatore, monopolizzando l’attenzione dello spettatore. Il regista, come detto, non inventa nulla, ma riesce con la pazienza dell’artigiano a disegnare curve, inventare sorpassi, azzardare staccate mozzafiato. In pista e nel racconto. Girando “all’antica”, senza farsi aiutare troppo dal digitale, porta il film (e lo spettatore) al punto esatto in cui le emozioni esplodono. Così anche chi non è appassionato di corse d’auto può riconoscersi in questa corsa per la vita, veloce come un bolide lanciato sul rettilineo, disperata come un racconto di Tondelli, difficile come una frenata che può salvarti la vita o farti finire fuori strada.

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