Sono neologismi che servono a chiarire rapidamente un concetto altrimenti spiegabile con un lungo giro di parole. Certo che, tra questi, l’espressione “esodati” riesce ad essere brutta in sé, e a dare immediata sensazione di situazione brutta. Già. Si tratta di quelle migliaia di italiani che, a seguito di accordo aziendale o perché l’azienda nel frattempo s’era squagliata, si trovano fuori dal mondo lavorativo ma pure fuori dal paradiso pensionistico. Cioè contavano di arrivarci con la vecchia normativa ante dicembre 2011, e magari uno “scivolo” previdenziale calcolato ad hoc per avere i contributi necessari per la pensione. Peccato però che, in quattro e quattr’otto, le regole previdenziali siano cambiate (in peggio). E il sogno di un’imminente pensione si è trasformato in un incubo. Incubo non è una parola eccessiva. Senza lavoro, molti italiani di una certa età hanno visto l’asticella previdenziale alzarsi all’improvviso anche di quattro-cinque anni. Di cosa si campa, nel frattempo? Qualcuno ha tentato di tornare precipitosamente nell’azienda che li aveva appunto “esodati”, spinti fuori con pacca sulle spalle e graziosa dote previdenziale: hanno trovato i cani lupo ad abbaiare alla porta. Purtroppo un lavoratore di una certa età, in Italia, è visto più come un peso che come un portatore di esperienza e di capacità. La progressione retributiva porta un 55enne a guadagnare certamente di più di un ventenne assumibile con contratto di apprendistato, quindi per pochi euro. Energie fresche e facilmente “domabili”, se hanno voglia di conquistare il sospirato posto di lavoro. Si dirà: ma l’esperienza? Ma la professionalità acquisita? Si buttano fuori strada, appunto le si esodano. Si replicherà: così non fan tutti… Ed è una pura illusione. Una situazione simile l’ha vissuta il mondo dell’editoria. Una norma di un paio d’anni fa dava e dà la facoltà alle aziende editoriali in difficoltà di “esodare” i giornalisti prossimi alla sessantina, grazie anche ad un generoso scivolo previdenziale che sopperisce alla mancanza di un numero sufficiente di “marchette”. Beh, quasi tutte le aziende editoriali hanno dichiarato di avere molto mal di pancia, e hanno immediatamente spulciato tra le anagrafi dei propri giornalisti dipendenti. Risultato: una valanga di prepensionamenti, anche di “firme” illustri, anche di direttori. Dal 20 al 30% degli organici liofilizzati nel giro di pochi mesi. Questo per dire che il problema attuale degli esodati – di coloro cioè che si sono trovati in mezzo al fiume a causa della riforma Fornero, e per i quali si sta cercando una soluzione (in certi casi siamo di fronte a veri drammi familiari) – è la spia di un allarme ben più forte e duraturo. Quello cioè che chiama in causa qualunque lavoratore ultracinquantenne, da qui ai prossimi anni. Persone che “pesano” sui bilanci aziendali; che faticano a trovare una diversa o una qualunque occupazione; e che ora sono ad almeno un decennio di distanza dalla pensione, quando fino a pochi mesi fa era tempo di visite all’Inps e di proiezioni pensionistiche. Per questo ci convince poco la riforma del lavoro che si sta discutendo in queste settimane, nella parte riguardante le norme che favoriscono una maggiore licenziabilità. In teoria si prevede la possibilità per le aziende con più di 15 dipendenti di liberarsi (seppur coprendoli di soldi con un generoso indennizzo) di fannulloni o incapaci, ora blindati dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. In pratica il timore è che saranno presi di mira soprattutto i lavoratori con una certa età anagrafica, quelli che “costano di più e rendono di meno”. Oggetti che non servono più, pesi di cui liberarsi. È già pronto un altro neologismo: i rottamati. Da mandare in discarica. Per questo urgono riforme che non solo non indeboliscano la posizione lavorativa e sociale degli italiani, ma anche introducano elementi nuovi che concilino le esigenze del “mercato” con quelle delle persone in carne e ossa.
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