Non è dato sapere se anche a Natale e Santo Stefano gli arabi della Etihad Airways, già da qualche settimana insediati nelle palazzine di Fiumicino, abbiano continuato il proprio lavoro.Con il piglio degli uomini d’affari della City, giustamente ignorando le festività cristiane lontanissime dalla loro cultura, quei signori in veste bianca e turbante, staranno forse ancora ultimando con meticolosità di scuola anglosassone, presso la quale si sono formati, l’esame degli squinternati conti della nostra compagnia di bandiera, erede degenere della LAI (Linee Aeree Italiane) che nell’immediato dopoguerra, tanto lustro aveva procurato all’aviazione civile del nostro Paese. Al termine di tale spietata analisi daranno probabilmente il consenso all’acquisto di un significativo pacchetto azionario di Alitalia (non è escluso possa essere di maggioranza), a fronte di un esborso paragonabile al classico pugno di lenticchie. Nel frattempo le hostess di bordo, si stanno facendo confezionare vestiti secondo la pratica della purdah non solo per la tratta Roma-Abu Dhabi.In altre stanze, ma in cruda, disarmante sintonia, Telefonica Spagnola si accinge ad assumere il pieno controllo in Telecom. Nel 2014, la società iberica, con l’ulteriore, massiccio acquisto di quote dalla holding Telco, diventerà di fatto, al di là dei formalismi evocati dall’oscuro linguaggio politico, borsistico, economico-finanziario, il nuovo padrone dell’azienda telefonica italiana, oberata di gravosissimi debiti. La vendita di questo residuo “pezzo pregiato” dell’imprenditoria nazionale, non può non richiamare alla memoria e fare il paio, con la cessione dell’ Olivetti alla tedesca Mannesmann, consumatasi alla fine del secolo scorso, che sancì la dolorosa e definitiva chiusura degli stabilimenti di Ivrea, vanificando i successi che gli omonimi Camillo e Adriano, per buona parte del Novecento, avevano raccolto in campo internazionale.Non v’è dubbio alcuno: di tali infamanti “performances”, si scrive con stizza e livore nei confronti di chi, per decenni, ha provocato simili disastri, gli ultimi in ordine di tempo, ma non certo più sorprendenti per gravità e ignominia.La dilapidazione dei “gioielli di famiglia”era cominciata molto presto, a cavallo di due, tre lustri, tra il 50 e il 60.In quegli anni si era concretizzata la collaborazione tra la Montecatini e Giulio Natta, futuro premio Nobel, i cui studi erano culminati con l’invenzione del polipropilene isotattico, un polimero estremamente versatile in termini applicativi.Sembrava davvero che l’industria italiana fosse destinata ad affiancare senza complessi, Rhon Poulenc, Monsanto e ICI ,i colossi della chimica internazionale, ma nel 1959, con i fondi della Cassa del Mezzogiorno, istituzione nobile nei principi e nelle intenzioni, malefica e fuorviante nell’utilizzo, la Montecatini avviò la realizzazione di uno stabilimento a Brindisi per la produzione di derivati polipropilenici, che si rivelò un fallimento. Errori in fase di progettazione e di costruzione dell’impianto, accompagnati da sordide manovre in seguito divenute norma, comportarono macrolievitazioni dei costi e l’impegno finanziario che ne derivò influì pesantemente sul bilancio societario.In poco tempo la concomitanza di indebitamenti e perdite di quote mercantili ne segnò il declino irreversibile. Allora non arrivarono stranieri a lanciarsi sull’ormai facile preda, che venne invece voracemente divorata dalla “geniale” fusione con la Edison, una sorta di esordio delle “mangiatoie” a partecipazione statale, che avrebbero pesantemente dominato la politica industriale per i successivi quarant’anni.A seguire, tutta una serie di misfatti che invariabilmente avevano una comune conclusione: posti di lavoro andati in fumo, azzeramento della capacità di competere, svalutazioni, liquidazioni.Qualche altra citazione? C’è solo l’imbarazzo della scelta.Angelo Motta, pasticciere di Gessate, aprì un laboratorio dolciario a Milano nel 1919. In meno di vent’anni la sua geniale intuizione fu quotata in Borsa e nel postbellico conquistò il mondo con il suo prodotto più famoso, il panettone.Negli anni settanta la Motta smise di essere una splendida azienda privata, perché venduta alla SME, società finanziaria del gruppo IRI. Il suo smembramento si concluse nel 1993, quando la divisione gelateria, che aveva inventato il famoso “Mottarello” passò nelle mani della multinazionale svizzera Nestlè.Nell stesso anno, dopo squallide vicende, ognuna peggiore della precedente, il gruppo Carlo Erba-Farmitalia cessò di esistere, acquisito dalla svedese Kabi Pharmacia. Più di cento anni di ricerche in campo farmaceutico culminarono nella sparizione di una delle più brillanti operazioni di sviluppo industriale nostrano. C’era stato un momento in cui l’Adriamicina, farmaco antitumorale di provata efficacia, avrebbe potuto costituire la piattaforma di lancio intenazionale per la ricerca farmaceutica italiana, ma l’occasione non venne colta. Acquisita dalla Montedison, nel frattempo divenuta una sorta di crogiolo di rottamazione, la prestigiosa realtà produttiva milanese si avviò irreversibilmente al tramonto fino al menzionato epilogo.La stessa città di Lodi assistette in quel tristo periodo ad uno dei delitti più clamorosi della produzione alimentare padana. Una realtà florida e creativa come la Polenghi Lombardo, sbarcata addirittura oltre oceano, in Brasile, si trasformò in uno sbilenco carrozzone che, sballottato tra speculazioni e incompetenze, rappresenta oggi uno dei simboli più atroci del declino di tutta l’imprenditoria italiana con il suo stabilimento di S. Grato, ridotto a un cumulo di inutili ferraglie.Ora si vendono anche le società di calcio: la Roma agli americani, l’Inter ai tailandesi ed anche il Canicattì si è messo alla ricerca di un compratore straniero.Completata la liquidazione, oltre che dei “gioielli”, anche della bassa bigiotteria, la ricerca di qualcosa di cui liberarsi, a prezzi di realizzo per fare cassa, sembra ormai sul finire.In un vecchio film in bianco e nero, il grande Totò riuscì a vendere il Colosseo. Per emularlo potrebbe esser messo in campo qualche tentativo volto a piazzare la Valle dei Templi, Pompei o la Villa del Casale, piuttosto che abbandonarle al degrado e ai vandalismi. C’è qualcosa di già svenduto, tuttavia, di cui tutti insieme, governi antichi e recenti, partiti, sindacati, imprenditori, faccendieri, sanguisughe e “associati” dovrebbero vergognarsi, piangendo lacrime amarissime: l’avvenire di quei tre milioni di giovani che non studiano, non lavorano, e attendono invano inesistenti percorsi formativi.Saprà la rivoluzione dei “quarantenni” del 2013, annunciata da Enrico Letta, in grado di provocare un’inversione di tendenza? L’auspicio è d’obbligo; il pessimismo più che giustificato.
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