Scusi prof, mi interroga in dialetto?

E’ consentito esprimersi in dialetto durante un’interrogazione? È lecito cercare nei vessilli la risposta al significato della propria storia? E se tutto questo sconfinasse in un incontrollabile conflitto? Sappiamo, ad esempio, di uno studente che viene sospeso due giorni per aver risposto in dialetto al professore, mentre in un’altra scuola è il docente di religione che viene prima redarguito e poi censurato dalla preside per aver spiegato ai suoi allievi il significato di quel leone alato che compare sulla bandiera della Serenissima Repubblica di San Marco. Il primo episodio accade all’Istituto professionale «Ferracina» di Bassano del Grappa, in provincia di Vicenza, dove uno studente di un corso per adulti, viene sospeso dal preside per aver risposto al suo insegnante in dialetto veneto durante l’interrogazione. Per l’insegnante «a scuola si deve parlare in italiano», per lo studente «non sta scritto da nessuna parte che a scuola si deve parlare in italiano».

Il battibecco senza fine porta a due giorni di sospensione. Al Liceo «Berto» di Mogliano Veneto, in provincia di Treviso, invece, un insegnante di religione decide di fare una lezione sul vessillo della Repubblica della Serenissima e in particolare sul significato culturale e religioso che emerge da quel «Pax tibi Marce, evangelista meus» (Pace a te o Marco mio evangelista) riportato sulle pagine del libro aperto tenuto da una zampa del leone.

Agli studenti piace quella lezione tanto che decidono di tenere in classe, ben estesa, quella bandiera. L’iniziativa non è condivisa da alcuni docenti che la segnalano in presidenza. Perentorio l’invito che la mia collega, originaria di Napoli, rivolge al docente di religione: quella bandiera va riposta nel cassetto. Sono due episodi che la dicono lunga su come basta poco per avvelenare il clima nelle nostre scuole.

Da una parte è stato sufficiente una risposta in dialetto per far arrabbiare un insegnante, dall’altra è bastato soffermarsi sul significato di una bandiera lasciata ben in vista in classe per irritare docenti e preside. In tutti e due i casi le conseguenze sono state piuttosto severe: due giorni di sospensione allo studente che ha risposto in dialetto all’interrogazione; un sonoro rimprovero al docente che si è permesso di addentrarsi nei meandri della storia veneta lasciando esposta in classe la bandiera della discordia. Sono personalmente dell’avviso che, in entrambi i casi, si è andati oltre.

Ritengo un’esagerazione aver sospeso uno studente per le risposte date in dialetto durante l’interrogazione, come ritengo esagerato aver rimproverato ufficialmente un insegnante per aver tollerato l’iniziativa degli studenti su un vessillo storico. E’ il solito conflitto tra la libertà di espressione e gli inconvenienti da essa originati.

E’ vero che nella scuola pubblica l’italiano è la lingua ufficiale, ma è altrettanto vero che un docente deve sempre porsi a livello dell’allievo. Qui siamo di fronte a un allievo adulto, che pur sapendo esprimersi correttamente in italiano, ha preferito rispondere durante l’interrogazione in dialetto. Di solito una punizione è commisurata a una colpa.

Qui se la colpa è l’aver preferito il dialetto durante un’interrogazione, allora non sono d’accordo sulla decisione presa dal mio collega. Ma se la punizione è stata data per l’atteggiamento provocatorio assunto dallo studente adulto, allora condivido. In questo caso emerge un aspetto di natura prettamente educativa e pertanto censurabile. Il dubbio ci sta tutto.

Pare, infatti, che lo studente sia un attivista del Partito Nazionale Veneto, non nuovo a certi comportamenti provocatori. Forse che l’intento dello studente era quello di esercitare un certo potere culturale, aggrappandosi alle tradizioni espressive locali, per imporre una sua verità? Se così fosse allora questo principio non può trovare spazio nella scuola.

«Signori miei, qui la verità non esiste. – diceva Gorgia da Leontini – L’unica cosa a cui potete attaccarvi è la relatività del logos, ovvero la possibilità di esercitare il potere attraverso la parola e il pensiero».

Ma qui la libertà è stata forse ricercata per provocare un conflitto. Diverso il caso del Liceo «Berto» di Mogliano Veneto. In questo Liceo è successo qualcosa di discutibile. Un docente vuole approfondire il significato di quella storica frase riportata in latino. Per fare questo è partito dalla bandiera che viene esposta in classe e lì è rimasta per volontà degli studenti. Proteste e rimproveri hanno fatto il resto.

Ma come c’era da aspettarsi, si sono scatenate le reazioni politiche che hanno avuto come obiettivo la mia collega accusata di essere tollerante verso gli striscioni anti Gelmini comparsi nell’istituto e poco tollerante verso le bandiere istituzionali. Quel vessillo, infatti, è anche il simbolo delle istituzioni venete (Regione Veneto, Provincia e Comune di Venezia) , ma compare anche sullo sfondo nella bandiera della flotta navale italiana. Dunque ancora una volta la scuola si divide su dialetti e bandiere.

Stiamo attenti a non esasperare gli animi fino a trasformare il significato di certe iniziative, fondamentalmente a carattere culturale, in confronti polemici e vedere la scuola simile a un agone aperto a contrapposizioni, conflitti e posizioni.

Lasciamo fuori dalle aule il confronto politico, sia che si tratti di espressioni dialettali che di esposizione di bandiere e lavoriamo per contenuti culturali che sono alla base di interessanti processi formativi. La storia locale fatta di linguaggi, simboli e contenuti non deve spaventarci perché non è frutto di pregiudizi. Anzi. Cogliamo il meglio per condurre i nostri allievi a capire la storia, la cultura, le tradizioni di una comunità, piccola o grande che sia, che contribuisce e aiuta a formare una coscienza, una mentalità e perché no, una cultura di appartenenza. La libertà di espressione non giustifica una libera e provocatoria comunicazione.

Le espressioni dialettali, fuori da ogni stravaganza o provocazione, possono essere riportate con rispetto e buon senso.

In quanto al vessillo della Serenissima, non spaventiamoci più di tanto dei leoni alati quando a parlare è la storia di un popolo. Prendiamola con filosofia. Liberi di esprimersi e liberi di esporre bandiere dunque, ma…. senza ubriacarsi.

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