Proseguendo nella ricerca delle “parole di cucina” di cui si è persa memoria, incontriamo uno strano termine, tuttavia comprensibile dal Piemonte al Friuli e dall’Emilia all’Abruzzo senza soluzione di continuità: pedriöl. Per il resto d’Italia: ‘imbuto’. Originariamente ‘grosso imbuto per le botti’, lo ritroviamo nell’italiano antico piria, figlio del latino parlato (perciò non documentato per iscritto) pletria, a sua volta proveniente da una voce greca che significava ‘riempitrice’ (da cui nasce anche l’italiano pletora, ‘quantità eccessiva’).Fratello gemello di pedriöl è pidria, termine usato però soltanto in senso figurato in espressioni quali “invers ‘me una pidria” (lett. ‘rovesciato come un imbuto’) per indicare una persona di pessimo umore, e “lavativ cun la pidria”. Lavativo, che in senso figurato sta per ‘individuo fastidioso’, o anche ‘scansafatiche’, è voce popolare per ‘clistere’: con l’imbuto, l’operazione già di per sé poco gradevole diventa insopportabile, come è appunto l’individuo definito con questa espressione.Se per riempire una bottiglia serve il pedriöl, per svuotarla bisogna prima stapparla. L’operazione non presenta difficoltà se si dispone del tirabüson, dove il büson (dal francese bouchon) è il tappo, o turacciolo, una volta rigorosamente di sughero. Non sappiamo se è per l’influenza culturale e politica della vicina Francia (ricordiamo, nel 150° dell’unità d’Italia, che Cavour parlava benissimo il francese, che era anche lingua di corte dei Savoia insieme all’italiano), o semplicemente per la fama dei vini d’Oltralpe, che il tirebouchon si infila nel nostro lessico. E non soltanto nel nord lombardo-piemontese, ma giù giù fino a Napoli e oltre (tirabusció), tanto da essere riportato anche dal moderno dizionario Devoto-Oli, nella forma tirabusció o tirabuscione.Un altro attrezzo di sapore antico è la gratiröla, la grattugia: di varie forme e dimensioni, dalla scatola in legno con rullo chiodato azionata da una manovella, ad una semplice lamina con fori dai bordi in rilievo, non mancava mai nelle nostre case. Oggi il formaggio e il pane grattugiati, in busta di plastica e pronti all’uso, le fanno una spietata (e sleale) concorrenza, approfittando del punto debole delle mamme e mogli moderne: il tempo da dedicare alla cucina.Stessa sorte tocca al vecchio masnin, il macininacaffè; caffé che si fa prima se anziché in chicchi è già in polvere, o addirittura in cialde preconfezionate da infilare di corsa nella macchinetta per un espresso che più rapido non si può, come ci insegna quotidianamente mamma TV. L’esperienza, con l’autorevole conferma della scienza, ci insegna invece che sapori ed aromi si conservano nella loro pienezza se il prodotto è grattugiato o macinato al momento del consumo.C’è però qualcosa che, dopo decenni di oblio, ricompare prepotentemente sulla scena. Acquisita la consapevolezza che le materie prime, ad esempio il petrolio, hanno disponibilità limitata, e che non è simpatico lasciare in eredità ai nostri nipoti montagne di rifiuti per i millenni a venire, stiamo finalmente rinunciando alle borse per la spesa in plastica (per gli esterofili: shoppers). Scartando, per un uso continuativo, la più fragile bioplastica, non rimane che tornare alla borsa di tela dei nostri nonni (per i lodigiani: sachela). Nelle sachele si metteva di tutto, anche i prodotti alimentari sfusi, come pasta, riso ecc.; e ovviamente il pane, quello appena sfornato dal prestiné, perché il prodotto da supermercato in confezione cellofanata si trovava soltanto nei racconti di fantascienza.
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