Probabilmente è la prima volta che succede, ma se il prezzo da pagare è la correzione di comportamenti violenti, allora anche lasciarlo a casa potrebbe aiutarlo a diventare più educato e responsabile delle sue azioni. Sto parlando di un ragazzino di appena quindici anni che a Perugia, autore di atti di bullismo, è stato mandato ai domiciliari. Certo fa riflettere che a un ragazzino di appena quindici anni viene impedito di andare a scuola, di relazionarsi con i suoi coetanei, di vivere esperienze formative ed educative tipiche di ambienti comunitari. Eppure se si è arrivati a questa soluzione, sicuramente doveva essere, stando a notizie apparse sui quotidiani, non una peste, ma un «terrore» per l’intera scolaresca. Un ragazzino temuto da docenti e da compagni di classe per le continue e reiterate minacce nonché aggressioni fisiche fino a indurre i genitori dei malcapitati alunni a presentare una formale denuncia e il Tribunale dei minori di Perugia a emanare una sentenza di «permanenza domiciliare», una specie di “arresti domiciliari” per minori. Ora il clima tornerà sereno nella classe, almeno così si spera, ma il fatto in sé riporta in auge un argomento sempre più sentito negli ambienti scolastici: il bullismo. Un fenomeno sempre più crescente e che vede, con sempre maggiore preoccupazione, l’abbassarsi del livello dell’età degli autori di quelle che oramai non possono più essere classificate come bravate. Sono veri e propri atti di violenza fisica e psicologica resi ancor più maliziosamente sottili e perciò stesso pericolosi dal massiccio utilizzo della tecnologia in mano a bambini e adolescenti. Stiamo attenti però a non banalizzare le opinioni. Non ci sono degli «evviva» o dei «finalmente» da gridare per aver liberato la classe da un soggetto, straniero, artefice di un pesante clima di disagio collettivo in quanto classificato come «soggetto pericoloso» e quindi da mandare in «isolamento» a casa. Nossignore. La questione non va impostata in questi termini. Quando la scuola non riesce ad assolvere al suo compito primario educativo, quando un giudice si vede costretto ad emettere una sentenza di «permanenza domiciliare» rivolta ad un ragazzino, quando la famiglia si rivela impotente di fronte al fallimento dei valori educativi, a riflettere dobbiamo essere tutti a cominciare dai genitori. Nella fattispecie non c’entra se il ragazzino è italiano o straniero, ciò che invece dovrebbe indurci a maggior riflessione sono i fallimenti a cui spesso gli adulti vanno incontro senza essere riusciti a cambiare lo spirito di relazione che per motivi vari rimane relegato nella sfera conflittuale. Il primo fallimento è della famiglia, dei genitori, la cui debolezza nel rapporto con i figli, resa peraltro più forte dalla delega educativa rimandata ad altri, quasi per procura, non lascia scampo all’affermarsi di un futuro pieno di incognite. In questo modo i genitori si privano di un proprio specifico potere genitoriale, dimostrandosi incapaci di assolvere alla primaria funzione: educare! Del resto diciamo pure la verità. Ai genitori non dispiace affatto «dare in affitto» una delle sue funzioni e guarda caso quella che più impegna proprio perché più esigente, lasciando alla scuola, ritenuta in grado di ben gestire la situazione, la forza di intervenire. A questo punto, a mio modo di pensare, vengono commessi due gravi errori. Da una parte si registra una totale e inammissibile delega nei confronti della scuola ad occuparsi di educazione, generando un equivoco di fondo rappresentato dal fatto che l’educazione è soprattutto roba d’altri; dall’altra non ci si rende conto che la parte più importante nel rapporto con i figli, ovvero l’affettività, non viene alimentata da funzioni vitali che solo i genitori sanno trasmettere. Come conseguenza si avrà la frantumazione del riconoscimento sociale, l’idea stessa di riconoscimento dell’altro come soggetto da rispettare, da amare, e i primi a non essere rispettati e amati sono proprio loro: i genitori. E’ la fine dell’educazione e l’inizio del disagio nonché della rovina del ragazzo. A questo punto le risposte sono fortemente punitive tanto che la denuncia o, addirittura la «permanenza domiciliare», sono ritenute le uniche in grado di portare a qualche risultato. Quale poi è tutto da verificare. D’altro canto la punizione in sé deve avere uno spazio specifico nell’azione educativa, l’importante che sia commisurata all’obiettivo che si vuole raggiungere. I miei genitori, ad esempio, alle mie reiterate stupidate ben lontane, sia chiaro, da essere atti di bullismo, mi mandavano a lavorare nei campi. Vita grama ed esistenza dura specie d’estate, durante la raccolta delle patate, quando il sole allo zenit picchiava la testa, coperta solo da un fazzoletto dalle punte annodate sui quattro lati che non impedivano, comunque, alle gocce di sudore di scivolare lentamente per radunarsi sulla punta del naso prima di cadere sulle patate. Ma quelle erano decisioni della cultura Contadina in contrasto con la «permanenza domiciliare» espressione della cultura Metropolitana. Con la differenza che nei campi il rapporto con gli adulti, che facevano da «mentori bucolici», non mancava mai, cosa che la «permanenza domiciliare» non consente e non genera dal momento che mancano i «mentori parentali», mentre l’unica compagnia in casa è quella offerta, in piena solitudine, dallo smartphone. Di qui l’importanza della presenza dei genitori quali primi depositari di valori da trasmettere. Talvolta la loro disperazione generata da una cattiva educazione impartita ai figli, è addebitata a un crudele destino ritenuto erroneamente l’unico responsabile dei fallimenti educativi, dimenticando che «quello che la gente chiama comunemente destino, è costituito per lo più dalle sue stupide gesta» come ci ricorda Arthur Schopenhauer, filosofo tedesco del XIX° secolo. Si tratta, quindi, di stupide gesta e queste possono essere corrette solo se si è disposti ad affiancare i propri figli, correggerli quando sbagliano, punirli quando occorre, ma anche amarli quando a chiederlo sono i loro sguardi, le loro reazioni, le loro gesta, senza stancarsi, senza crearsi degli alibi che portano spesso, in campo educativo, a valorizzare la delega e a dispensare se stessi da specifici oneri e obblighi a cui nessun genitore può sottrarsi. E’ vero. Tutto questo costa fatica. Ma non è forse questo lo scopo genitoriale? Non è questo il ruolo dei genitori? Una vita da genitori privata di questo impegno è forse degna di essere vissuta? Credo proprio di no. «Eppure – ci ricorda Platone - il persuadervi non è cosa facile».
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