Quando la selezione non ha senso

Che gli esami di stato siano ancora oggi fortemente sentiti dai ragazzi, è cosa risaputa. A riprova di ciò vi è una vasta cultura che va dal cinema ai servizi radiofonici, dagli articoli di fondo dei giornali a vere e proprie interviste. Ma che in una classe quinta di otto studenti sono solo in tre a raggiungere il traguardo del diploma, questo lascia interdetti e pone dei seri interrogativi sia sul metodo di insegnamento impostato dai docenti che sull’impegno nello studio mostrato dagli studenti. Eppure tutto questo è successo all’Istituto Superiore per Geometri «Mario Rutelli» di Palermo dove i tre superstiti, non certamente eroi per caso, hanno dato prova di grande tenacia nel non mollare la presa e nel non cadere nelle grinfie del rigorismo esasperato imposto dai docenti alla classe, accusati di eccessiva severità e di forsennata selezione. Intervistato, il mio collega non ha fatto difficoltà a fare una sintesi: scarso impegno nello studio da parte dei ragazzi e metodologia superata di certi docenti. A questo punto è bene aprire una riflessione e capire dove si può e dove, invece, si deve intervenire. Parlare di merito nella scuola è sempre un po’ difficile perché si rischia di essere fraintesi vieppiù se al merito si contrappone una certa diseguaglianza sociale direttamente correlata al triste fenomeno della dispersione. Vale a dire che non è possibile immaginare una scuola frequentata solamente da studenti dagli ottimi risultati che finiscono sempre col non creare problemi ai docenti. Sarebbe troppo comodo insegnare in una classe dove si ha a che fare solo con alunni omogenei con un alto quoziente intellettivo al punto da non richiedere un particolare impegno al docente. Una classe del genere non esiste o quanto meno non dovrebbe esistere. In una scuola non si dovrebbe parlare di alunni superstiti, di ragazzi scalcinati, di sfaccendati «fancazzisti», men che meno di «truppe scelte», di elite minoritarie o di elementi altamente selezionati abituati a collocarsi sempre al di sopra della media. Nell’uno o nell’altro caso questa sarebbe una scuola sbagliata. Compito della scuola è, infatti, quello di preoccuparsi che tutti gli alunni raggiungano un adeguato livello formativo, occupandosi in egual misura degli uni e degli altri e, anzi, preoccupandosi di limitare al massimo l’esodo degli abbandoni. Deve far riflettere la scuola che si gongola dei suoi campioni mostrandoli in posa mentre lascia nelle retrovie e dimentica nell’angolo i tanti alunni problematici. Compito della scuola è soprattutto quello di non escludere nessuno dai processi formativi poiché, in quanto foriera di valori educativi, essa prepara soprattutto alla vita. Parlare di selezione non vuol dire separare in modo manicheistico i bravi dai meno bravi, i vincitori dagli sconfitti, i valenti dagli incapaci. Né tanto meno occuparsi degli uni e disinteressarsi degli altri, ovvero occuparsi solo ed esclusivamente delle eccellenze per lasciare al loro destino i mediocri. «Parlando di virtù umana o di eccellenza - ci dice Aristotele - non intendiamo quella del corpo, bensì quella della mente e, per felicità, intendiamo l’attività della mente». Il che vuol dire che nelle nostre azioni non possiamo sottrarci alla nostra natura umana e privare di significato la vita. Una scuola che insegna un simile cammino, ha perso i suoi valori, vivrà una sua intrinseca mediocrità perché non porterà mai i suoi studenti ad amare la conoscenza, a sentire il peso della responsabilità, a vivere un autentico senso civico. E’ selezione, dunque, quando si insegna agli alunni ad andare oltre la semplice competizione per sconfinare nella scoperta dell’altro che resta indietro. Questa è la vera scuola reale. Una scuola frequentata da ragazzi diversi per impegno, capacità, cultura e condizione sociale, ragazzi che dettano ritmi differenti, che impongono una continua ricerca di metodi diversi, che richiedono un’apertura alle tante opportunità formative in risposta alle varie proposte progettuali. Si parla, in questo caso, di una scuola di tutti, frequentata da tutti pur nella specificità e nella diversità di ciascuno. Solo così gli insegnanti si sentiranno fortemente compromessi perché costantemente spinti alla ricerca di soluzioni innovative e comunque adatte a determinare condizioni ideali per condurre i ragazzi verso gli obiettivi minimi messi a programma. In tal caso non si può più parlare di volontà selettiva, ma di adeguate risposte necessarie a riconciliare gli studenti con la scuola e con chi nella scuola crede e investe risorse. Allora forse si eviterà di parlare di iniziative sindacali contro i docenti, di ricorsi al Tar per contrastare le decisioni prese da un consiglio di classe, ma soprattutto si eviterà forse di parlare di carenza di conoscenze didattiche e pedagogiche imputabili a un mancato aggiornamento professionale. Il tallone d’Achille di tanti docenti. Il tema è uno di quelli forti. A finire sul banco degli imputati è sempre la bocciatura di ragazzi che non viene accolta e che al contrario viene ritenuta non solo tradizionalmente ingiusta, ma anche e soprattutto foriera di una mancata professionalità. Come e cosa rispondere a simili osservazioni? Forse che sarebbe meglio applicare la soluzione già in essere in Paesi come la Norvegia, l’Islanda e l’Inghilterra dove non si applica più la bocciatura, ma in sua vece si parla di corsi di recupero estivi obbligatori? No! Su questo, personalmente, non sono d’accordo. Abbiamo visto tutti dove ha portato la politica delle materie non recuperate. Anni infausti per la scuola e per gli stessi studenti. Questa stagione si è chiusa per sempre. Ora però ne dobbiamo aprire un’altra. E qui viene il difficile. Ne siamo tutti consapevoli e non per questo dobbiamo nasconderci dietro un dito. La scuola viene oggi a trovarsi in una situazione da crisi educativa senza precedenti, una débacle formativa che potrebbe sfociare in una ulteriore fase pericolosa per ritrovarsi piegata su se stessa senza alcuna via d’uscita. Sarà la sconfitta della scuola che prepara alla vita. E cosa ancor più preoccupante è una sconfitta che potrebbe acuirsi tra il silenzio e l’indifferenza generale poiché parte di un sistema congiunturale sociale che toglie speranza e importanza culturale a ciò che la scuola rappresenta.

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