Ripartiamo da un’espressione della scorsa puntata, “fà un pal” (‘fare un capitombolo’) per parlare dei tanti modi di cadere dei lodigiani “purosangue” (...che però nel nostro Palio, al contrario di quello di Siena - come dice uno slogan azzeccato - “non si fanno mai male”). Nemmeno quando “i fan una tuma”, parola oscura che viene da tomare, verbo antico e di uso regionale. Il verbo tomare, che troviamo anche in Dante («ma ‘nfino al centro pria convien ch’i’ tomi»: Inferno, Canto XVI), sarebbe arrivato - secondo alcuni studiosi - dal francese tumer; secondo i soliti bastian cuntrari invece dal greco ptoma, caduta.Affine a tuma è tumbula, da non confondere con l’omonimo gioco popolare di numeri e cartelle: tumbula - da tombolare (‘precipitare, ruzzolare’)- è voce del linguaggio famigliare derivata, attraverso il medievale tombare, dal francese tomber, «cadere».Accanto a tuma e tumbula non possiamo non mettere il rigulon, ‘caduta, ruzzolone’. Rigulà è un verbo che troviamo con minime varianti dalla Liguria al Veneto, dall’Emilia alla Toscana, erede di un antico rugolare (‘cadere, rotolare, ruzzolare’).Sinonimo di rigulà è burlà (giù), voce settentrionale (v. ad esempio il milanese borlà: ‘cadere rotolando’, o il cremonese burelàa: ‘far rotolare’) anch’essa evidentemente piaciuta a Dante, nonostante l’abbia messa all’Inferno («Perché burli?» Canto VII,30). L’origine è la stessa di burela, ‘pallina’, da borro, ‘oggetto rotondo’.Siccome però il mondo è bello perché è vario (“perché l’è avariad”, come dice un nostro vecchio gioco di parole), c’è chi cade rotolando ma c’è anche chi finisce ‘lungo disteso’ o, per farci capire dai lodigiani duri e puri, “el va lungh tirent”.Spesso la conseguenza di queste plateali cadute è solo un grosso spavento (“un bel stremisi”) o qualche piccola ammaccatura od escoriazione (“gnüche e spelade”); nei casi più gravi è una corsa al Pronto Soccorso. Soltanto i pessimisti ad oltranza alla parola tirent associano un esito letale, rifacendosi al detto popolare “va ben, sta ben, la matina l’àn truad tirent”, cioè ‘stecchito’.Per effetto di una caduta ci si può anche trovare “stravacadi per tera”, così come ci si “stravacca” sul letto, sulla poltrona, o sull’erba (quella, ad esempio, dei nuovi giardini del Passeggio, molto apprezzata da indigeni e allogeni per la sua accogliente morbidezza).Stravaccarsi è voce di uso famigliare, entrata nel vocabolario della lingua italiana nel secondo ‘800, per indicare il sedersi o sdraiarsi in posizione comoda ma scomposta. Di origine padana, e pertanto diffusissima in tutti i dialetti settentrionali, la troviamo già nel latino maccheronico del mantovano Teofilo Folengo (XVI sec.).In modo transitivo, stravacà significa ‘rovesciare’ o ‘versare’ (“l’à stravacad el vin süla tuaia”; “ò apena stravacad la pulenta”; “s’é stravacad el biroc”). Il sostantivo stravacada invece, in senso figurato, sta per ‘sproposito, castroneria, sciocchezza’ (“t’é finid de dì stravacade?”).Chiudiamo con un esempio d’autore, l’amico Antonio “Cecu” Ferrari, voce inimitabile della poesia e del teatro in lodigiano, che ricordiamo con grande affetto e rimpianto: «E stasera mi guardi/ la lüna rutunda:/ pulenta ‘n ciel stravacada/, che la se pogia, là, ‘n sü le föie...». Splendida immagine che ha dato il titolo alla raccolta “Polenta e luna” da cui abbiamo tratto la citazione.
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