Chiacchierando con il proprietario di un autonoleggio pochi giorni fa, questi mi spiegava sconfortato che sempre più spesso le macchine, affidate a persone con tutta l’apparenza della rispettabilità, gli vengono restituite con ogni genere di scarti da ripulire, che vanno dagli scontrini appallottolati, passano all’immondizia di base e arrivano – con sommo ribrezzo – alle unghie tagliate. La stessa incuria che si nota la maggior parte delle volte che si usufruisce di una delle utilitarie messe a disposizione per il car sharing: gente che avrebbe cura maniacale della sua propria automobile, si vota al menefreghismo non appena ne prende in prestito una senza proprietario definito. Come se la non appartenenza, o la condivisione, ne deprezzasse automaticamente il valore e rendesse le cose, o gli ambienti urbani un campo giochi per teppisti. Un comportamento di noncurante negligenza facilmente riscontrabile contando i mozziconi e le cartacce per terra in strada, i graffiti sui muri della città, le intercapedini dei sedili dei mezzi pubblici decorate con gomme da masticare e carte oleate, i muretti e i vasi da fiori guarniti con bottigliette di plastica e lattine vuote. Il paradosso di chi tiene il salotto immacolato e poi sporca la piazza, perché “non tocca a me pulire”. Si è assistito negli anni a un declino della tutela dei beni comuni tale per cui il cittadino medio, senza distinzioni di credo o etnia, tratta ciò che è di tutti molto peggio di come farebbe con qualcosa di sua esclusiva proprietà. E incuria chiama incuria, laddove irreprensibili turisti di paesi immacolati, assumono rapidamente le abitudini degli indigeni probabilmente convinti che faccia parte del folclore locale. Uno studio di qualche anno fa effettuato negli Stati Uniti aveva messo in evidenza come un’auto o un edificio che presentassero segni di vandalismo si prestavano ad essere ulteriormente vandalizzati dai passanti senza alcun motivo apparente, solo perché tanto “erano lì ed erano rotti”. Insomma, non è solo perché mancano i cestini e la manutenzione degli stessi lascia a volte a desiderare, ma al degenerare dei costumi concorre lo scarso senso civico. Questione di cultura? Di ignoranza? Di superficialità? La moltiplicazione degli atti incivili, pone un serio problema di responsabilità dei singoli, che, in tutta evidenza, non considerano prezioso (e quindi da salvaguardare) tutto ciò di cui non hanno uso esclusivo. Nei parchi si vedono mamme eleganti e anziane signore staccare festose ampi rami fioriti da mettere a casa “perché sono tanto belli”. E che dire dell’abitudine, nemmeno appannaggio esclusivo degli innamorati o degli studenti in gita, a siglare e incidere con i propri nomi monumenti o luoghi sacri? Non bastassero i selfie a immortalare l’impresa. Quando non a depredare le bellezze naturali, portando a casa discutibili souvenir che vanno dalla raccolta della sabbia di un colore particolare allo staccare stalattiti millenarie: tutte cose destinate a prendere polvere sul comò, mentre rimane un vuoto insostituibile nel luogo di origine. Nel racconto “La Vergine del moscato” (da “L’ultima lacrima”, Feltrinelli), Stefano Benni narra il furto a spregio compiuto da un gruppo di turisti in una chiesetta di campagna. Nel silenzio del paesino i cui abitanti sono altrove affaccendati, i quattro turisti di città, incarogniti e insuperbiti, staccano il grappolo d’uva dalle mani della statua della Madonna, conservando con orgoglio nel cassetto il ritaglio di giornale che dà conto del furto ad opera di “ignoti vandali”. A leggere le pagine dei quotidiani e le denunce via social media, temo che se si dovesse pagare un caffè a tutti coloro che hanno un ritaglio simile piegato da qualche parte, si andrebbe rapidamente in rosso…
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