Stiamo partecipando ad una fase particolarmente confusa della politica internazionale. La “primavera araba” sta vivendo la sua fase più difficile. In Libia da diverse settimane ormai la guerra ha bloccato il Paese in uno stallo di difficile soluzione. Come abbiamo più volte scritto, l’iniziativa politica internazionale doveva arrivare prima, per impedire a Gheddafi di usare la forza. I tentennamenti, i calcoli e gli egoismi gli hanno permesso di riconquistare buona parte del Paese a spese della sua stesa popolazione, provocando la reazione tardiva e muscolare del Consiglio di sicurezza. I muscoli servono in Libia a fermare il dittatore, senza peraltro riuscire a farlo cadere, ma soprattutto a casa, e per questo abbiamo visto un Sarkozy particolarmente attivo, per cercare di recuperare i voti inarrestabilmente persi alle amministrative francesi di quindici giorni fa.Lo stallo libico, o meglio i ritardi a sanzionare la violenza di Gheddafi, ha costituito di fatto un messaggio di liceità ai leader della regione che hanno scelto di usare la forza nei propri Paesi, dal re del Bahrein al presidente yemenita, dal re saudita a Bashar al-Assad che in Siria sta producendosi in un’impressionante “performance” violenta che è già costata la morte a decine di persone. La situazione siriana è particolarmente preoccupante. Assad si presenta come leader moderato e democratico, ma ha scelto la forza, dando ordine di sparare. Dopo i disordini più gravi ha annunciato un suo intervento in Parlamento, ma lo ha rimandato di diversi giorni. Quando ha effettivamente parlato, si è celebrata una liturgia imbarazzante in cui il presidente veniva interrotto da applausi unanimi degni del peggior Castro, in cui i parlamentari gli gridavano “Presidente il mondo arabo è troppo poco, tu dovresti guidare il mondo intero” sotterrati da uragani di applausi in diretta tv per mostrare la forza del leader. In realtà quel leader è in difficoltà, ostaggio dei militari e dell’élite di potere che lo costringono all’uso della violenza. Di quell’élite però egli ha bisogno per rimanere al potere. Ciò che sta avvenendo, insomma, è una protesta di piazza che non provoca un cambiamento radicale, come vorrebbe, ma solo un regolamento di conti all’interno del potere. Non migliori speranze offre, ad una prima lettura, il caso egiziano, in cui esercito e partiti tradizionali (tra cui i Fratelli musulmani) stanno tentando di monopolizzare lo spazio politico del prossimo processo elettorale.La confusione è alta e può scoraggiare. Se si guarda più a Sud alla Costa d’Avorio, il Paese che veniva considerato un faro per una parte dell’Africa sub-sahariana, si vede un processo di successione sanguinoso, in cui il presidente sconfitto dalle urne elettorali si è barricato nel palazzo presidenziale con la milizia a lui fedele, bloccando il Paese per sei mesi e rifiutandosi di accettare il verdetto elettorale. Anche in questo caso le armi hanno provocato lo stallo, superato solo dall’aumento della forza militare usata da Francia e Caschi Blu, sino ad arrivare all’arresto di Ggabo.È questo il destino della Libia e di chi nel mondo arabo ha scelto la forza? Non è necessariamente questa l’unica deriva, anche se è molto difficile fermare le armi mentre stanno sparando. Proprio per questo occorre senso di responsabilità e partecipazione. Mai come in questi momenti occorrono da parte di tutti parole caute e ben valutate. Non è la timidezza quella che auspichiamo, ma il coraggio della mitezza, che sa guardare avanti e prendere posizione guardando alla costruzione di solidarietà e non alla costruzione di muri di difesa egoista. Qualcosa di ben diverso – purtroppo – da ciò che abbiamo ascoltato in questi giorni da alcuni presidenti e ministri di grandi Paesi europei, compresa l’Italia.Se la politica è debole, non si scoraggino i cittadini. Dobbiamo continuare a interessarci, a seguire, a interrogarci su quanto avviene, per essere in grado di vivere responsabilmente questa stagione. È una strada che richiede l’impegno dei media, a raccontare ciò che avviene e a interpretarlo, fuggendo dagli strepiti di chi grida perché non ha idee. È una strada che offre segnali di speranza. Alcuni li abbiamo riconosciuti nel Meridione italiano di queste settimane, tra italiani e migranti che condividevano accoglienza e servizio. Ci piace pensare che sia la cifra di un’Italia futura, più colorata e più silenziosa, più accogliente e più capace.
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