Ho partecipato di recente ad un incontro in cui il relatore, parlando del sociale, sosteneva con forza la necessità di “provocare la comunità” per moltiplicare le opportunità. E aggiungeva: “Serve un nuovo modello di società” perché il destino dell’altro non può rimanerci estraneo…Effettivamente, osservando le nostre città, non possiamo rimanere indifferenti al numero crescente di sfratti per morosità o alla preoccupazione per le persone espulse dai circuiti produttivi, agli anziani soli, ai poveri anonimi che bussano in silenzio a tante porte in cerca di aiuto per provvedere ai bisogni essenziali. Di fronte a tutto ciò, i comuni e gli organismi che operano nel sociale fanno quello che ritengono giusto e quello che possono. Ma ciò non basta mai. Allora, quali politiche di contrasto possono risultare efficaci? Quali azioni di sostegno significative? Come definire meglio utilità, effetti, costi, benefici e sprechi?C’è una logica fondamentale che può guidare il ripensamento del senso della società e della sua organizzazione ed è la logica della solidarietà. Tradurre coerentemente la solidarietà vissuta in ambito sociale e nella vita pubblica, significa associarsi mossi dal senso di responsabilità verso la città e anzitutto verso quanti non hanno tempo di aspettare perché vivono in condizioni talvolta disperate. Il valore fondamentale della solidarietà sta proprio nella capacità di aprire strade nuove. Oggi, serve innescare una forza “rigenerativa” (Fondazione Zancan, La lotta alla povertà rapporto 2013, Rigenerare capacità e risorse, ed. il Mulino) con ottimismo e speranza. Lavorare per la costruzione di un sistema di welfare che deve diventare capace di rigenerare le proprie risorse, economiche e soprattutto umane. Rigenerare un sistema di solidarietà in profonda crisi di fiducia.La prima necessità che si pone è quella di dare importanza alle domande, prenderle sul serio, adottando, laddove possibile qualche strategia rigenerativa “non posso aiutarti senza di te”. Solo dall’ascolto attento alle domande potrà nascere lo stimolo necessario per cercare le risposte, solo quando nessuno si sentirà “a posto” potranno avere inizio reali percorsi di cittadinanza. Ogni storia merita considerazione, indipendentemente dalle possibilità di risposta. Togliere l’anonimato permette di pensare alle politiche sociali non solo come politiche di risposta ma prima di tutto come tessuto di socialità, di legami, di beni comuni, dove la domanda dell’altro trova interesse ed impegno di risposta.Nel Libro Bianco si è parlato tanto della necessità di un “nuovo Welfare”, dove le politiche sociali sono da considerare un’area di investimento prioritaria. Ed è così! Perché il sociale attraversa tutte le politiche: la casa, il lavoro, la salute, la cultura, l’ambiente. Lavorare in quest’ottica segna il passaggio da territorio a comunità, permette di investire sulle persone, dove la lotta alla povertà non è una sfida fuori portata, dove il welfare da costo diventa investimento. Se non si mettono al centro le persone, con le loro capacità, potenzialità e responsabilità, non è possibile rigenerare risorse.Acquisire le domande di chi è in difficoltà consente una comprensione reale dei bisogni e può generare consenso sulla necessità di cercare risposte. I “numeri” della povertà, portati fuori dall’anonimato, e l’entità delle risorse utilizzate permettono di capire se gli interventi aiutano i poveri ad uscire dalla povertà o se continuano ad essere poveri. La valutazione dell’impatto sociale degli interventi, l’impatto della spesa per la povertà, è fondamentale.In sintesi, efficienza ed efficacia delle scelte: quanto le scelte nelle politiche sociali abbassano i bisogni? Quante sinergie si creano? Quali processi o effetti a catena possono suscitare?Oggi servono sicuramente scelte coraggiose, capaci di pensare la città non solo a partire dai poveri, ma dalla parte dei poveri. Serve un pensiero alto per ricostruire gli interessi dal basso. “La periferia è il luogo da cui è necessario guardare il mondo” (Colmegna). Ma bisogna averli “dentro” i problemi, averli accolti veramente per poterli affrontare, per cercare risposte adeguate e riconoscere le giuste priorità. Il rischio altrimenti è quello di porsi “contro le situazioni”. Partire dal basso significa non rimanere indifferenti all’aumento di persone senza fissa dimora e pensare che mense e accoglienze (ubicate quasi esclusivamente a Lodi) possano bastare, come del resto non può venir meno la preoccupazione per il crescente numero di disoccupati o sfrattati. Si aggiunge poi la richiesta di accoglienza di chi scappa dalla propria terra per fuggire a guerre o povertà. La solitudine…Per partire dal basso si potrebbe riflettere sulla necessità di partire dai più esclusi, decentrare gli interventi nel lodigiano, lavorare in rete con i vari attori sociali in forma integrata e con una logica di corresponsabilità. Inventare nuovi modelli di Welfare capaci di dare ascolto alle sofferenze delle persone, dove ogni servizio/ente si interroga su come promuovere una cultura di cittadinanza, con la disponibilità a mettersi in gioco con scelte coraggiose. Utopia? Sogno? Forse…Purtroppo esiste ancora una cultura diffusa secondo la quale le azioni a favore dei poveri sono una specie di benevolenza, mentre il welfare viene assorbito dall’emergenza. Il sostegno alle necessità è fondamentale, ma servono processi di cambiamento e di prevenzione. E’ necessario contrastare le politiche che generano povertà (sarebbe assurdo spendersi per chi è nel bisogno senza opporsi alle politiche di impoverimento).Nel territorio lodigiano le competenze e l’impegno non mancano. Questa necessità di cambiamento si avverte. Lo dimostrano le tante azioni silenziose di vicinanza ai bisogni nel quotidiano, le azioni di sistema in alcuni progetti. E’ di recente costituzione un’organizzazione composta da vari attori sociali, sanitari ed economici del territorio che ha dato vita, non senza difficoltà (lavorare in rete comporta fatica e rispetto dei valori, dei tempi e dei soggetti), grazie a persone volenterose e capaci, ad un progetto di raccolta e redistribuzione degli alimenti, volta a dare sostegno, vicinanza, ascolto alle persone, affinché con tale aiuto le famiglie possano concentrare le poche risorse su altre necessità (utenze, affitti, ecc.).Rimane ancora difficoltoso un percorso di corresponsabilità tra enti/istituzioni/volontariato per l’accoglienza dei profughi, vite da tutelare, situazione che non si può più definire di “emergenza”. La migrazione, sia economica che forzata, è ormai un fenomeno sociale che va governato con intelligenza e apertura, senza forme di strumentalizzazione politica per farne tema di propaganda.Tanti servizi-segno che stanno nascendo, oltre a dare risposte concrete, possono essere, per la comunità e le istituzioni, stimolo di attenzione e cura per pensare spazi “rigenerativi” di intervento e solidarietà. Talvolta i più esclusi non trovano spazi adeguati e la vita sulla strada diventa un baratro verso forme di dipendenza ed ulteriore emarginazione. Perché non unire le forze ed attivare un centro diurno? Pensiamo ai costi-benefici.Partire dal basso necessita una visione comune di cambiamento, un pensiero collettivo, la crescita di una cultura dell’azione sociale che, rispettosa delle diverse posizioni valoriali e di impostazione, cerchi di provocare la comunità alla solidarietà come modo di vivere, anzi di convivere, assumendo la propria quota di responsabilità per lo svolgersi della realtà di tutti. Significa ricomporre le priorità e coinvolgere i vari attori sociali nella programmazione, progettazione e verifica degli interventi, dove gli enti pubblici continueranno ad essere garanti dell’equità e del rinnovamento sociale, collaborando con il volontariato ed il terzo settore alla crescita di un welfare generativo.Riuscirà il Lodigiano a raccogliere la sfida?Io penso di si!
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