C’era una volta Cassandra, figura femminile mitologica che nessuno vorrebbe avere come compagna. Perché? Il motivo è nella sua attività di preveggenza piuttosto sgaruppata. Tanto nefasta nel dare notizie, quanto poco credibile nei suoi vaticini. Del resto questa benedetta figlia di Priamo è l’emblema dell’ingenuità. Credeva di fargliela ad Apollo da cui aveva ricevuto la facoltà divinatoria in cambio del suo amore, ma la furbetta, al momento clou, viene meno al patto e lo respinge, costringendo il Dio, bello come il sole, a togliere credibilità alle sue profezie. Di Cassandre purtroppo anche oggi il mondo è pieno. Tuttavia bisogna aggrapparsi alla speranza per un mondo migliore che per il pianeta scuola, diventa speranza per una scuola migliore. Ma qui qualche domanda mi sorge spontanea. Perché sperare in una scuola migliore, quando finalmente dopo anni di lamentele vediamo l’autonomia spiccare il volo al punto da consentire ai docenti di organizzare meglio la didattica? Perché sperare in una scuola migliore quando proprio grazie alla legge sulla «Buona Scuola» siamo nelle condizioni di fare classi con meno alunni, di assicurare docenti individuati non più mediante punteggi, ma mediante l’accertamento di competenze necessarie per migliorare gli apprendimenti? Perché parlare di speranza in una scuola migliore quando finalmente siamo di fronte a un piano straordinario di assunzioni, e su questo sfido chiunque a dimostrare il contrario, che pone fine all’endemica precarietà di tanti docenti lasciati nel limbo per decenni? Il popolo della scuola è davvero strano. Quando si imponevano classi numerose e si tagliavano le cattedre per risparmiare, ci si scagliava, giustamente, contro chi di quella politica sbagliata ne era responsabile. Oggi che vengono immessi in ruolo più di 63 mila nuovi docenti e ora si parla anche di 10 mila ATA; oggi che si parla di nuovi concorsi per segretari e presidi, che si ricorre a sostanziali deroghe per garantire più docenti di sostegno nelle scuole, che si riconosce un rafforzamento nell’organico destinato ad ogni singolo istituto, consentendo di fatto piena autonomia in quanto anche a innovative soluzioni digitali, ebbene nonostante queste concrete decisioni, non mancano docenti che continuano a considerare le soluzioni adottate come brutti segnali forieri di un nefasto futuro. Strano, ma è così. Sono in molti a parlare di ingiustizie che affiorano con la «Buona Scuola», a parlare di situazioni di disagi e inquietudini, di frustrazioni e amarezze, di molta confusine e poca trasparenza. E questo vale non solo per i trasferimenti di tanti docenti dal sud verso le regioni del nord, ma anche per certi “strani algoritmi” che consentono ai più giovani di trovarsi in situazioni di vantaggio nella scelta della sede rispetto a chi è professionalmente più anziano. Un discorso a parte merita la “chiamata per competenze” lasciata in gestione ai presidi definiti i nuovi “padri padroni” e mal digerita dai sindacati che annunciano ricorso alla Corte Costituzionale. Eppure saranno proprio le competenze, preventivamente accertate, a garantire organicità e coerenza con l’offerta formativa che ciascuna scuola mette in campo in fatto di raggiungimento di obiettivi generali e specifici. Variabili, queste ultime, ritenute erroneamente foriere di palesi ingiustizie. A molti sfugge un dato che potrei definire determinante se si volesse dare una valutazione complessiva all’intero pacchetto “riformista”: il precariato. Questo moderno e nefasto mostro avvolgente, simile al Leviatano di Hobbes, cresciuto via via con gli anni, che si è nutrito di sé stesso e che ha generato delle aberrazioni, ora va sconfitto. Con la legge 107/15 questo triste fenomeno può finalmente essere più contenuto e con gli anni cessare del tutto. Certo ci vorrà del tempo per vedere completamente esaurite le graduatorie frutto di un passato che non si cancella con un colpo di spugna. Del resto i movimenti migratori di migliaia di docenti dal sud verso il nord hanno sempre alimentato la schiera dei precari. Per decenni il nord, che potrei definire il «ventre molle» della scuola, è sempre stato pronto ad accogliere i nuovi insegnanti solerti però nel ritornare al sud appena le circostanze lo consentivano. E’ stato sempre così. Essere precari vuol dire non avere certezze, non poter impostare un futuro, significa veder vanificare gli obiettivi, significa, in ultima analisi, sentirsi costantemente in balia di una realtà liquida, anonima, ma pur sempre pronta a far pesare il proprio negativo giudizio. Dov’è la risposta? Con la legge 107/15 arriva anche il blocco dei trasferimenti per tre anni e questo consentirà, come affermato di recente dal Ministro Stefania Giannini, una garanzia per la continuità didattica. Chissà perché tutto questo resta da molti relegato nella «pars destruens», mentre sarebbe opportuno lasciarsi prendere dalla «pars costruens» tanto per usare un’espressione cara a Blaise Pascal. Molti considerano, infatti, questa opportunità un inganno, una iattura, se non addirittura un sottile raggiro legalizzato e non vedono il lato positivo ovvero la fine del precariato. Il pessimismo regna tra la classe docente investita in questi giorni da quelli che sono stati definiti come effetti negativi generati dalla «Buona Scuola». Da più parti si chiede di rimediare e alla svelta. L’angoscia di tanti docenti mutata in frustrazione dall’esito dei primi trasferimenti, sta tracimando e potrebbe trasformarsi in reazioni fuori controllo dalle conseguenze assai pericolose. L’occupazione dell’Ufficio Scolastico di Napoli, avvenuta in questi giorni da parte di docenti esasperati, è un brutto segnale che lascia presagire un nefasto inizio di un nuovo anno scolastico. Tra delusione per i cattivi esiti dei concorsi, amarezza per le prospettive che si offuscano sempre più all’orizzonte e rabbia per i trasferimenti indesiderati verso località distanti migliaia di chilometri da casa, il clima si fa incandescente e di questo clima si alimenta il Masaniello di turno che incita alla rivolta. Dal Miur, però, arrivano segnali di determinazione. Indietro non si torna. Probabilmente non mancheranno isolate anomale situazioni che la cronaca col tempo farà emergere, ma vanno considerate tratti fisiologici tipici di una manovra di questa portata. Più che di incitazioni alla rivolta c’è bisogno di equilibrio, di razionalità e di ponderazione con una risposta che potrebbe essere così sintetizzata: laddove ci sono errori, riparare; laddove ingiustizie, sanare; laddove frustrazioni, soddisfare; laddove dubbi, chiarire. Così si rispettano le persone.
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