Appena nati se deformi o ritenuti non idonei a combattere li abbandonavano sulla cima del monte Taigeto. Il destino di questi bambini era segnato. Morivano o nelle peggiori ipotesi diventavano un lauto pasto per le fiere selvagge. Raramente riuscivano a salvarsi così come narra Valerio Massimo Manfredi in uno dei suoi libri «Lo scudo di Talos» dove un bambino abbandonato per la sua malformazione a un piede viene miracolosamente salvato da una povera famiglia, allevato fino a diventare, nonostante la malformazione, un bravo soldato. Casi rari. Paradossalmente per la società spartana questi bimbi non rappresentavano un problema, proprio perché di essi non rimaneva traccia fin dalla nascita. Sparta aveva bisogno di bambini forti e selezionati che, una volta sottratti alle famiglie in tenerissima età, erano destinati a diventare la forza armata dello Stato. Perché racconto di Talos e del monte Taigeto? Perché nonostante i secoli una certa cultura è dura a morire. Ai tempi di oggi per fortuna non abbiamo un monte Taigeto, ma in chiave moderna sia pur con animo più sereno, reso docile da una coscienza di accoglienza che si impone senza riserve, siamo chiamati a fare i conti con la cultura della diffidenza nei confronti di persone ritenute diverse, nei confronti di persone che forse preferiamo non incontrare perché abbiamo scelto di esistere e non di vivere. E’ successo ancora, ed è successo in una scuola elementare di San Giuseppe Jato in provincia di Palermo. La notizia è riportata da alcuni quotidiani nazionali e francamente mi ha amareggiato, provocando in me una profonda delusione per come dei genitori preferiscono affrontare certi problemi. In questo caso il problema è rappresentato da un bambino di sette anni, autistico che un bel giorno si ritrova da solo in classe. Cosa sarà mai successo? Ben presto si scopre che tutti i suoi amichetti sono stati tenuti a casa perché lui agli occhi degli adulti rappresenta un problema: è insopportabile. Troppo irrequieto, talvolta urla in classe senza motivo, è causa di distrazione, disturba, fa perdere tempo prezioso per chi vuole apprendere. Non solo. Talvolta, come dichiara la madre, viene lasciato solo a mensa, probabilmente perché anche a tavola la situazione è dura da gestire.E allora ecco che il fantomatico WhatsApp dei genitori fa la sua micidiale comparsa. I messaggi arrivano su tutti gli smartphone. La comunicazione virtuale aiuta proprio perché consente di comunicare celermente con tutti e tutti partecipano alla stesura della proposta da fare alla preside. Ed ecco la soluzione. Tutti d’accordo. Per costringere la preside a prendere in seria considerazione una valida iniziativa che non faccia perdere tempo a chi ha voglia di studiare, si decide di dare un segnale forte. Una protesta eclatante. E cosa può essere eclatante in una scuola più di non uno sciopero in grado di far capire a chi di dovere la natura del problema? Gli alunni sono tenuti a casa e il nostro bambino autistico si ritrova da solo in classe senza capire le ragioni. Lui è troppo piccolo per capire, mentre i genitori sono troppo grandi per fallire il piano messo in atto. La preside è colta di sorpresa. Considera la protesta «una presa di posizione estemporanea e inaspettata» e convoca i genitori. Avviene il chiarimento e tutto rientra. Ma è un fallimento comunque. Al Ministero, dove nel frattempo è giunta notizia tramite l’associazione «Parlautismo», vogliono vederci chiaro. Una scuola che educa all’inclusione sociale e formativa, chiamata a valorizzare ogni diversità, ogni abilità individuale; una scuola che ha alle spalle una trentennale storia di interventi legislativi sui disabili maturati per non far mancare loro un futuro migliore; una scuola da sempre impegnata sul fronte della disabilità vista come fonte di educazione del modo di essere diversi, non può ancora oggi vivere e scoprire come valida una cultura dell’isolamento. D’accordo è uno spiacevole episodio, ma non può essere liquidato così ipocritamente. Non è il primo e probabilmente non sarà l’ultimo. Bisogna scavare per trovare le ragioni culturali che hanno indotto i genitori a vedere nello «sciopero» di classe la via maestra per attirare l’attenzione sull’esistenza di un problema. A mio modo di vedere la diversità non è un problema soprattutto da quando, sempre culturalmente parlando, il termine di «integrazione» è stato sostituito da quello di «inclusione». La scuola, quindi, è un ambiente chiamato a rispondere sui bisogni di tutti e di ciascuno, soprattutto sugli alunni dai bisogni speciali. La scuola, prima ancora della famiglia, è un ambiente a forte connotazione di accoglienza, dal compito primario di facilitare a vivere le diversità come risorsa particolare e non come problema da evitare. Ha fatto bene il sottosegretario all’Istruzione, Davide Faraone, peraltro padre di una bimba autistica, a chiedere l’intervento della Direzione Scolastica Regionale siciliana per approfondire il caso ed eventualmente creare le condizioni che evitino, in futuro, l’insorgere di certe iniziative che non hanno nulla a che vedere con la cultura sociale ed educativa su cui la scuola fonda le sue migliori energie. I bisogni non sono sogni, ma spunti culturali da cui deve emergere una diversa cognizione sociale che porti al sorgere di un’armonia dentro se stessi e con gli altri. A che vale parlare di BES e DSA, di PEI e GLH, di DF e di PDF, se poi li conosciamo solo come acronimi, come sigle asettiche senza capirne l’autentico contenuto pedagogico, sociale, educativo e cultuale? A che vale parlare di inclusione quando poi siamo chiamati a fare i conti con la rabbia dei genitori che non accettano l’altro perché «diverso», che preferiscono continuare a ignorare piuttosto che a fare della compartecipazione un valore sociale e sinergico. Il processo di inclusione è fatto di gesti e vuole essere soprattutto un atteggiamento, una predisposizione d’animo, una parola al momento giusto, un sorriso, una carezza, un abbraccio che è ben altra cosa che scioperare o lasciare solo un bambino. Se l’inclusione è amore, l’esclusione è ipocrisia, ambiguità, fallimento. Questi genitori con il loro comportamento hanno fatto una scelta, dando di se stessi una brutta immagine e come scrive Agostino Degas, pittore e poeta dei nostri giorni: «Mentre noi facciamo le nostre scelte, le nostre scelte fanno noi».
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