C’è una data che meriterebbe maggior risalto mentre invece passa in sordina tra l’indifferenza di molti. E’ il 5 ottobre, giornata mondiale degli insegnanti istituita dall’Unesco nel lontano 1966. In poche parole è la festa degli insegnanti. Purtroppo mala tempora currunt. Più che festeggiarli, oggi sono in molti che preferiscono far loro la festa. E’ sufficiente, per questo, accennare alle continue denunce, offese, minacce, sberleffi, umiliazioni a cui sono sottoposti. Io preferisco festeggiarli a modo mio, partendo da una lettera di uno dei più grandi presidenti americani: Abramo Lincoln. Sentite cosa scrive a un insegnante a cui erano state affidate l’educazione e l’istruzione del figlio. Diciamo subito che il contenuto va inquadrato nel contesto storico di un’America appena uscita dalla guerra civile che tanta distruzione aveva provocato. Una distruzione non solo materiale, fratricida, ma anche e soprattutto morale. La sua unica preoccupazione come presidente era dunque quella di ricostruire la nazione nello spirito e nell’identità nazionale e per fare questo riteneva indispensabile «...... partire dalla scuola, dall’istruzione, dalla cultura. Gli insegnanti saranno indispensabili, diventeranno il nerbo dell’America....». «Ma che belle parole» avrebbe detto Luciano Rispoli. Grande è dunque la considerazione che Lincoln ha degli insegnanti. Potrei dire che non è la prima volta che scopro cose del genere. Pare che anche Napoleone durante la campagna d’Egitto alla vigilia di una battaglia abbia ordinato ai suoi soldati di fare quadrato attorno ai maestri che aveva portato con sé convinto com’era dell’importanza dell’istruzione in quelle terre. Uno mi potrebbe dire: altri tempi. Ma non è proprio così. Saranno pure altri tempi, ma chi è chiamato a promuovere cultura, educazione e formazione vive in eterno perché è fuori dal tempo e soprattutto non è soggetto a scadenza. Almeno questa è la mia convinzione. Ma dati i tempi che viviamo purtroppo ahimè molti valori sono saltati. Oggi prevale una cattiva opinione degli insegnanti. Da noi oggi l’immagine dell’insegnante ha perso di significato, ha perso di spessore sociale e talvolta ha persino perso di riconoscimento di autorevolezza e di credibilità. Per fortuna nessun insegnante è ancora arrivato a imitare il gallo e a fare «chicchirichì» nelle osterie come faceva il professor Rath nel film «L’Angelo azzurro». Almeno al momento non mi risulta. Ma di questo passo se non cambia la politica di indebolimento culturale a cui è continuamente sottoposta la figura dell’insegnante, si rischia di spingere sempre più in basso un profilo professionale che, al contrario, ha sempre rappresentato e rappresenta la risposta unica e ideale per la crescita sociale e civile di intere generazioni. E’ un messaggio diretto alle istituzioni e non solo. Un diverso atteggiamento dovrebbero mostrare anche chi delle istituzioni è diretta espressione. E allora sono in tanti a dover modificare la discutibile considerazione sociale e rivedere lo spessore etico di una professione così altamente delicata. Ma dovrebbe cambiare anche l’approccio educativo, formativo e culturale del docente nei confronti degli allievi che da semplice trasmettitore di contenuti andrebbe proiettato verso l’affermazione del compito di un educatore di personalità in divenire. Come si vede il problema non è a senso unico. Bisogna saper chiedere e per chiedere bisogna anche saper dare e soprattutto bisogna imparare a saper donare. Se gli insegnanti sono «il nerbo» di una nazione, allora vuol dire che a loro è affidato un compito grandioso il cui riconoscimento va conquistato giorno dopo giorno sul campo con l’opera, la testimonianza, l’esempio, la cultura, la professionalità, e con un corretto approccio relazionale. E’ pur vero che la scuola rappresenta ancora oggi «un unicum» educativo e formativo affiancata in questo dalla famiglia e dalle altre tante agenzie educative espressione di un articolato e variegato tessuto sociale. Il problema però è un altro. Perchè continuare a mantenere in essere una scarsa considerazione sociale degli insegnanti che in fin dei conti non serve a nessuno e che anzi procura solo confusione e disorientamento? Forse rischio di essere anacronistico se ricordassi la considerazione che un docente godeva nel passato accanto a figure sociali come quelle del parroco, del maresciallo e del farmacista. Forse rischio di esagerare. Ma a mio avviso si esagera ugualmente quando si vuole spingere la professionalità di un insegnante ai margini del significato culturale di trasmettitore di capacità, saperi, conoscenze e valori. Una simile cultura oltre che ad alimentare pregiudizi, rischia di indebolire l’immagine di una espressione empirica necessaria a rafforzare la dimensione etica propria del docente. Ecco perché sono fortemente convinto che bisogna impegnarsi per recuperare una cultura: la cultura del riconoscimento di questa figura. E per raggiungere questo grado di convincimento bisogna prima affidarsi all’amore quale risposta per apprezzare la professionalità di un docente. Per dirla con Humberto Maturana «se un cane lo ami è intelligente, se non lo ami è stupido». Evidentemente nell’amore sono le ragioni di una valenza etica. Gli insegnanti hanno un difficile compito da svolgere. Educare, istruire e formare un ragazzo in divenire non è mai stata un’opera facile. Se poi queste difficoltà qualcuno preferisce affrontarle con una scarsa considerazione sociale, con mortificazioni professionali, con persistenti e deludenti riconoscimenti economici, allora sì che siamo di fronte a una miscela pericolosa che prepara a un demotivante impegno. Se, al contrario, prende quota una cultura del riconoscimento allora vuol dire che si è fatto un notevole passo avanti verso il rispetto per il «Maestro» (quello con la emme maiuscola) e per tutto quello che esso rappresenta. Recuperare la cultura del rispetto della funzione docente non può che essere un compito a cui tutti devono sentirsi chiamati a collaborare. Riscoprire la dimensione etica del docente non può che portare a restituire dignità alla figura dell’insegnante. Credetemi. Ne vale la pena.
© RIPRODUZIONE RISERVATA