Ci sarà un ritorno alla terra?

Dopo circa un anno di forte crisi economica, in Grecia si registrò un silenzioso quanto corposo ritorno alla campagna: vuoi per fuggire dai costi della città (e lì la città è Atene), vuoi per trovare qualche fonte di reddito alternativa alla disoccupazione; vuoi letteralmente per campare. l’orto di casa, il piccolo allevamento, le verdure e i formaggi… Un fenomeno che ha poi interessato pure la Spagna, paese con una buona ed organizzata agricoltura, abbandonata dagli spagnoli alla ricerca di un impiego nelle città o un’avventura nell’edilizia. La raccolta passò nelle mani di extracomunitari maghrebini, soppiantati ora dagli autoctoni alla ricerca di lavoro: il tasso di disoccupazione spagnolo è il più alto del mondo occidentale.

Anche in Italia le statistiche confermano un inatteso ritorno alla terra, soprattutto da parte dei giovani. Nel secondo trimestre del 2012 le imprese individuali agricole iscritte alle camere di commercio sono cresciute del 4,2%; in forte crescita le assunzioni (più 10%) e Pil agricolo in crescita, in controtendenza rispetto a quello generale italiano. Coldiretti conferma una forte presenza di giovani sotto i trent’anni: tra l’altro non manovalanza ma laureati o specializzati. Anche perché l’agricoltura di oggi è sempre meno calli sulle mani, sempre più innovazione e tecnologia. Sono rondini che fanno primavera sulle campagne italiane, protagoniste di un ultradecennale spopolamento?

Sono anzitutto rondini che fa sempre piacere vedere nel cielo della nostra economia, come l’esplosione di aziende biologiche – i numeri italiani sono da record mondiale – o i sondaggi che certificano la voglia dei più giovani di lavorare in un agriturismo piuttosto che in una banca o in una multinazionale.

Sono soprattutto il segno di un’agricoltura che si sta fortemente evolvendo, dove l’attenzione ai mercati e al marketing ha ormai superato la dedizione al lavoro, e la quantità intesa come unico metro di misurazione dell’impegno in campagna. Soprattutto i più giovani si documentano, studiano, provano, s’ingegnano a trovare occasioni di reddito facendo fruttare il poco che hanno. Perché le dimensioni delle aziende agricole italiane sono minime, e gli ettari a colture pregiate sono assolutamente fuori dalla portata di una giovane tasca.

Tutti saprebbero vivere più che dignitosamente gestendo 6-7 ettari di meleto pregiato in Valdadige o di Prosecco nel Trevigiano; pochi avrebbero il paio di milioni di euro per acquistarli…

Quindi c’è chi si è specializzato nella produzione di latte d’asina, o del prezioso zafferano; nello sfruttare le potenzialità della lavanda o nel collegarsi a gruppi di acquisto che rilevino a prezzi equi gli ortaggi o le carni di produzione; nel convertire il rustico in attività turistica o nell’ospitare scolaresche ed agri-asili.

Anche perché, per il resto, c’è poco da ridere. C’è chi ha stimato che il prezzo del grano è oggi la metà di 25 anni fa. Chi conosce le dinamiche dell’ortofrutta, sa che coltivare mele in pianura, pesche ovunque, meloni e uva da tavola, è un’impresa nel senso di far quadrare i costi con i ricavi. Che la concorrenza mondiale spesso travolge le nostre pur pregiate produzioni; che la grande distribuzione fa quel che vuole in tema di prezzi e pure di approvvigionamenti: costa meno importare carne irlandese o pomodori olandesi rispetto al made in Italy prodotto a tre metri dai punti vendita.

Non è solo un quadro a tinte fosche, anzi. Se i numeri del Pil non sono (ancora) tragici, lo dobbiamo anche a quella parte dell’agricoltura nazionale che ha saputo farsi industria, il cosiddetto settore agroalimentare. Vini, pasta, sughi, carni avicole, formaggi grana, salumi ed altro ancora hanno saputo conquistare nuovi mercati esteri, e proporre ai consumatori prodotti in linea con le esigenze moderne. Ma il fenomeno riguarda solo quelle zone d’Italia che hanno saputo investire e specializzarsi. Molto meno chi produce (anche bene) e basta, in balìa della speculazione mondiale e di una distribuzione che ha il coltello dalla parte del manico.

Perché rimane incredibile che, nel 2012, un chilo di pesche o un litro di latte vengano pagati al produttore meno del costo di un minuto di telefonata con un cellulare. Qui, in Italia, non nel terzo mondo.

Benvenuti quindi coloro che sapranno estrarre dalla terra un valore superiore ad una conversazione telefonica, in attesa che il mondo torni a girare per il verso giusto.

Nicola Salvagnin

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