L’attualità della “Pacem in terris” dopo 60 anni
L’intervento del vescovo Maurizio al Colloquio di San Bassiano
Colloqui di San Bassiano 2023-lunedì 20 febbraio in Galleria dei vescov. L’intervento del vescovo di Lodi, monsignor Maurizio Malvestiti, sul tema: “Pace…e guerra” nel sessantesimo della Pacem in Terris di san Giovanni XXIII.
Saluto
Sono onorato di accogliere con gratitudine al Colloquio di san Bassiano 2023, le autorità civili e militari: il Prefetto, i Parlamentari, il Presidente del Tribunale, il Questore, ma anche il Sindaco del Capoluogo e gli altri Sindaci dell’intero territorio diocesano compresi quelli appartenenti alle province di Milano, Cremona e Pavia, ad uno ad uno, col Presidente della Provincia e i nostri Rappresentanti in Regione, ma anche gli Operatori del mondo socio-politico ed economico, scolastico, culturale e sindacale.
Introduzione
Nell’imminenza del fatidico 24 febbraio, primo anniversario dell’aggressione all’Ucraina da parte di una Nazione della stessa matrice storica, culturale, religiosa (quella bizantino-slava), si imponeva una riflessione sulla pace, che ho desiderato a due voci per aprire il confronto amichevole di questa tradizionale iniziativa ad un mese dalla festa del patrono, San Bassiano. L’arpa e il violino ci hanno regalato l’incanto della bellezza musicale. Ho pensato che ciascun strumento potesse rappresentare un simbolico omaggio alle vittime e al riscatto da due guerre: quella pandemica, che ancora non osiamo definire completamente vinta, e quella tuttora in atto alle porte d’Europa. Siamo tornati in questa sala dopo tre anni esatti. Anche il 19 febbraio 2020 era gremita. La sera del 20 febbraio ricevetti la notizia del primo contagio per il paziente uno. Del tutto ignari di come fosse inarrestabile il conflitto sanitario sconosciuto e, tuttavia, mondiale, eravamo senza difese in un’emergenza non dipendente da noi. La guerra tanto disastrosa alle porte d’Europa dipende invece dai governanti e dai popoli. La lezione pandemica su come siamo piccoli e interconnessi, noi abitanti di quest’unica terra, non è, purtroppo, bastata.
Sì alla Pace
Vorrei chiedervi un sì alla pace stasera. Ho, perciò, capovolto nell’invito il titolo del romanzo di Lev Tolstoj, Guerra e Pace. Un riferimento letterario lontano nel tempo (scritto nel 1863 e pubblicato a partire dal 1865) ma certamente appropriato perché l’autore viene dalla grande Rus’ di Kyiv e pensa alle grandi creazioni epiche, quasi un romanzo infinito e perfetto per descrivere l’uomo nel tempo. Filosofia e scienza soccorrono la storia, la cui forza e drammaticità fanno spazio allo sguardo metafisico intenso sul fluire degli eventi. L’auspicio è che la pace non solo sottragga precedenza alla guerra. Ma la faccia sparire definitivamente. Il russo: Война и мир?, traslitterato si scrive: Vojnà i mir! Diventi al più presto “mir jin, ossia “pace a tutti”, come ripetutamente canta la liturgia slava sia a Kyiv sia a Mosca. L’arpa e il violino richiamano, anche, la sinfonia di cui abbiamo bisogno coniugando aspirazione alla pace e realtà. Con un chiarimento doveroso: il nostro non è confronto tra posizioni politiche bensì un semplice tentativo di dare credito alla pace affinché sia capace di dettare l’agenda ai politici e agli altri implicati nell’impresa guerra, i cui interessi occulti sembrano addirittura spaventosi. Il nostro è un confronto amichevole sulle opportunità della pace al vaglio della realtà, che, purtroppo registra le smentite clamorose di molte guerre.
L’enciclica Pacem in terris
Conoscere dell’umano le aspirazioni e la realtà è il primo passo per tentare la pace, la cui subdola o sfrontata negazione attraversa l’intera vicenda umana. Nella Bibbia (un colossal letterario fenomenologicamente riconosciuto…per rimanere a livello laico), il primo libro, la Genesi, presenta il primo fratricida dell’umanità, che, alla domanda: “dov’è tuo fratello (intendendo Abele)”, risponde: “sono forse il custode di mio fratello?”. Nonostante ciò, un segno l’avrebbe distinto affinché “nessuno tocchi Caino” (cfr Gn 4,9ss). E nell’ultimo libro biblico, l’Apocalisse, assistiamo al conflitto escatologico con la Donna e il Figlio che sfuggono dall’insidia mortale del drago (cc 11 e 12). La guerra dall’inizio alla fine. La pace, tuttavia, è sempre attesa, segretamente o esplicitamente. Dove? “In terris”. Al plurale, ossia in ogni campo dell’esistenza come in ogni tempo (la storia) e luogo (la geografia) da ogni uomo e donna in tutte le culture e religioni. Se è seminata ovunque, con incrollabile entusiasmo e fatica, quando meno te l’aspetti il seme, rimasto in silenzio talora disperatamente, germoglia. Il sessantesimo anniversario dell’enciclica lo ricorda. Venne pubblicata l’11 aprile 1963. Il Papa della pace, Giovanni XXIII, sarebbe spirato il successivo 3 giugno. Venne tra noi da cardinale patriarca di Venezia il 27 settembre 1958, un mese prima dell’elezione papale, per tessere l’elogio della nuova Lodi a 800 anni dalla nascita.
La guerra è inaccettabile
Il documento parla ad un tempo dominato dalla minaccia nucleare nel lungo periodo di guerra fredda, durante il quale Stati Uniti e Unione Sovietica accumulavano un copioso arsenale nucleare. L’apice dell’apprensione giunse nel 1961 col muro di Berlino e nel 1962 con la crisi di Cuba per l’installazione di missili sovietici. Cambia il concetto di guerra: qualsiasi conflitto diventa troppo pericoloso e non può più essere considerato semplicemente mezzo per far prevalere la giustizia. Rinnovata è l’ispirazione. La prima fonte rimane l’insegnamento sociale della Chiesa sui diritti dell’uomo, sul bene comune, sul rispetto delle minoranze nazionali, sui rapporti tra le Nazioni, sui rifugiati politici, sul disarmo e sulle istituzioni internazionali. Ma è nettamente riscontrabile l’apporto personale del pontefice, che si rivolge a tutti gli uomini, credenti e non credenti, con simpatia innegabile verso tutte le aspirazioni del mondo contemporaneo catalogate quali «segni dei tempi». Non si polemizza con chi è diverso e non si condannano le persone, pur riconoscendo l’inaccettabilità di taluni principi. Si abbandona la casistica nel determinarne la giustificazione della guerra.
Il papa parte dalla pace
È questo il capovolgimento per definire la pace «anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi». L’impronta personale di Giovanni XXIII è evidente nei «Richiami pastorali»: con la trattazione dei rapporti fra cattolici e non nell’azione sociale; della possibile cooperazione tra cristiani e non, con la distinzione tra le «false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo», e i «movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche» da esse avviati. Può quindi accadere che realizzazioni pratiche comuni possano presentare vantaggi reali. Poche righe aprono spazi completamente nuovi alle relazioni con i Paesi dell’Est Europa prospettando «un avvicinamento o un incontro di ordine pratico, ieri ritenuto non opportuno o non fecondo, oggi invece possibile e lo stesso domani». La pace è problema anche interno alle nazioni, chiamata in causa da ideologie e partiti politici che si contrappongono. Non è una prospettiva facile. È una difficile costruzione, che deve coinvolgere tutto il sistema degli Stati, compresi gli ambiti nazionali nevralgici, con tutte le forme comunitarie a partire dai singoli individui.
I quattro pilastri della pace
Certamente, Giovanni XXIII parte dal riconoscimento che Dio è il fondamento di ogni ordine morale a sostegno dei diritti della persona. È la pietra angolare sui cui poggia l’edificio del documento nella descrizione e nelle prospettive circa i rapporti tra esseri umani e i poteri pubblici all’interno delle singole comunità politiche in riferimento alla comunità mondiale. All’interno di questo schema, papa Roncalli afferma che la pace ha molteplici dimensioni che vanno dalle relazioni individuali a quelle internazionali ma concerne tutti gli ambiti dell’esistenza sociale, fino alla dimensione intima di ogni persona, prospettando un «disarmo integrale» che investe «anche lo spirito». Non si preoccupa della definizione e dei frutti della pace, il pontefice, impegnandosi maggiormente sulle condizioni che la rendono possibile, alludendo e indicando quattro pilastri indispensabili: verità, giustizia, amore e libertà. Non può sussistere un ordine che non sia fondato sulla verità e costruito secondo giustizia, ma vivificato e integrato dalla carità, che si esprime nella solidarietà senza discriminazioni. A porlo in atto è l’autentica libertà”, comprendente quella religiosa, quale garanzia di ogni altra sua espressione. Così, la pace non sarà soltanto assenza di guerra, ma un insieme di relazioni costruttive tra gli individui e le comunità.
Un’accoglienza eccezionale
La Pacem in terris riscosse un ascolto superiore ad ogni previsione a motivo della connessione con le grandi correnti dell’epoca moderna, di cui riconobbe senza paure o ritrosie, i valori e le ambiguità. La Gaudium et spes, costituzione pastorale del Concilio Ecumenico Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, avrebbe sviluppato questa posizione. L’elevatezza della visione e l’apertura a tutti gli uomini l’hanno diffusa ben oltre la comunità cattolica. Il linguaggio semplice e moderno, il tono fiducioso nell’avvenire ma esigente per tutti, rispondevano alle aspettative di molti alla fine della guerra fredda. Prima della Populorum progressio di San Paolo VI, fu certamente l’enciclica che ebbe la maggiore risonanza e diffusione. Rese più facile il dialogo con i non credenti. Rappresentò un notevole cambio di atteggiamento che impressionò (negativamente, talora) schieramenti politici contrapposti in Paesi liberali e socialisti. Le dichiarazioni di Giovanni XXIII sui diritti dell’uomo e sul disarmo sono ancora molto attuali. I passi sull’Onu e sull’autorità mondiale sono lungi dall’essere stati pienamente attuati. L’enciclica rimane un testo basilare del pensiero e dell’azione circa la pace (cfr Pierre De Charenternay sulla presentazione dell’enciclica, in Aggiornamenti Sociali, febbraio 2013).
Ora tocca anche a noi
Dall’aspirazione siamo chiamati a considerare la realtà individuando la possibile azione. Che possiamo fare? Vigilare sull’umano, sui diritti e i doveri ovunque, per sperimentare che siamo più vicini di quanto pensiamo ma prima di tutto dobbiamo assumere la responsabilità di conoscere la verità che libera (Gv 8,32). Per questo sarà proficuo l’intervento dell’On. Lorenzo Guerini, ministro emerito della Difesa in tempi recenti e tanto difficili. Certamente, il primo apporto possibile è pensare e confrontarci con l’intelligenza che si informa a tutto campo. Per i credenti non secondario, anzi decisivo, è pregare perché la visione della mente e del cuore, nulla togliendo al rigore dell’indagine e della verifica razionale, si allarghi a fare alleanza con lo Spirito, che può sempre capovolgere le sorti dell’umano impedendo quanto meno di dare falsi nomi e falsi connotati sia alla pace sia alla guerra. È così che si libera la pace: non consentendo, cioè, che invecchi e lasciando invece che ad invecchiare sia solo la guerra, rendendola incapace di rigenerarsi. È un dovere almeno parlarne e dire il “sì alla pace” davanti alle nuove generazioni, che giudicano gli adulti, volenti o nolenti, in base a questo “sì” chiaro o ambiguo. Insieme, possiamo sempre dare un contributo ideale o anche più concreto nel fare opinione sulle istituzioni e sull’insieme sociale in ogni sua espressione affinché la pace sia salvaguardata e in tal modo dare un input educativo ai giovani, guadagnandoci prospettive di pace almeno futura. È questa una serata su ciò che non possiamo affatto determinare? “Con gli angeli di Il cielo sopra Berlino venne abbattuto da un regista il muro prima che cadesse”. Il film di Win Wenders del 1987 ci dice che l’idealità va lontano e precede la storia. Una parola di pace dura più delle sequoie. Non accontentiamoci dei calci alle rose sui palcoscenici, si leggeva ieri domenica 19 febbraio 2023 su un quotidiano nazionale. In prima pagina.
L’attuazione del Sinodo
Il Sinodo della Chiesa di Lodi ha inteso parlare alla società: l’accoglienza offerta lo scorso anno in aula sinodale al Colloquio di San Bassiano con tutti voi non vuole essere smentita. Con la Chiesa italiana stiamo percorrendo la via della comunione, della partecipazione e della missione. La consegna del Libro sinodale al termine dell’incontro va in questa direzione partecipativa che è rispettosa delle diverse responsabilità ma appassionata del bene comune integrale da edificare insieme. La pace vi è citata in apertura a p. 12 sotto il titolo: Libertà nella carità, ma anche ai numeri 40 e 64. Dall’ultimo, traggo la conclusione: “Auspichiamo che la nostra Chiesa di Lodi, facendo proprio l’appello del Magistero, in particolare quello di Papa Francesco, promuova e partecipi a iniziative che sviluppino una cultura di pace. Non manchi l’invito alle forze politiche, economiche e sociali in particolare, a coloro che fabbricano e commerciano armi, per evitare che si continui imperterriti nella costruzione di un mondo fondato sulla forza bellica e sulla violenza, invece che sulla pace e sulla fraternità tra i popoli (cfr. FT 256-257)”. La conclusione è affidata ad alcune parole di Papa Francesco pronunciate nel tempo della guerra in Ucraina: “Per fare la pace ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra. Ci vuole coraggio per dire sì all’incontro e no allo scontro; sì al dialogo e no alla violenza; sì al negoziato e no alle ostilità; sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni; sì alla sincerità e no alla doppiezza. Per tutto questo ci vuole coraggio, grande forza d’animo.” Grazie.
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