La mia vicinanza cordiale alla città e alla diocesi

La tradizione di un saluto per Pasqua mi dà l’opportunità, sempre gradita, di esprimere la mia vicinanza cordiale alla città e alla diocesi in questa festa che sempre svela la comune avidità di serenità e pace. C’è però quel “non morire più”, che i cristiani si ostinano a vincolare ad un Crocifisso, sostenendo che sia risorto e apparso ai discepoli di allora. Lo attestano – del resto – le Scritture. Impensierisce però il fatto che egli abbia dato ragione di vita a quanti hanno creduto lungo i duemila anni “appena compiuti” dall’evento. Un numero impressionante di persone – ieri come oggi – ha giocato e gioca la vita - non raramente fino al martirio – sulla sua Parola. Cultura e storia – per chi non sentisse il legame della fede – non possono ritenere irrilevante l’intera vicenda.

Mi consola in profondità questo pensiero tanto da desiderare di regalarlo ai lettori, in semplicità amicale, insieme però all’affresco di una Crocifissione sorprendente (forse di fine Trecento), in auspicio pasquale. A suggerirmi la scelta è stato il “mistero della luna” che le nostre Carmelitane hanno evocato nell’articolo apparso su questo quotidiano, ieri, venerdì santo. La chiesa sarebbe la luna che Cristo illumina offrendosi come sole dell’umanità. Ricordo lo stupore esperimentato per la prima volta in Santa Chiara Nuova a Lodi davanti a questa delicata rappresentazione. Il Signore è trasudante in una compunzione più preoccupata del dolore umano che del proprio. Agli angeli che ne raccolgono il prezioso Sangue e ai personaggi evangelici della passione, si aggiungono proprio il sole e la luna a dire che luce sorgiva è solo lui in “cosmica centralità”. Il pellicano, che tutto sovrasta, richiama l’Eucaristia, memoria della morte e della risurrezione, dono di luce che tutti riscatta.

Incuriosisce la luna impegnata a divenire piena a misura del suo sole. Non potrà farlo senza di lui! E’ un monito per la Chiesa. Ma forse per la stessa umanità, che rischia di perdersi nelle sue stanchezze religiose e nell’impossibile tentativo di illuminare da sé l’enigma del dolore e del morire. Come sole in una casa e nella società è, invece, chi ama trascinando nella solidale attenzione ai più deboli, oltre che ai propri cari, dubbi e debolezze e mettendoli a tacere nella dedizione responsabile e perseverante al proprio lavoro preoccupato però del soffrire altrui. La pasqua può essere l’occasione propizia per questo passo. Credendo fermamente che l’amore – sacrificato come quello di un pellicano che nutre di sé i piccoli – può cambiare le cose. Ed è già traguardo apprezzabile il riconoscere che inaccettabile è la scappatoia di attendere l’adempimento delle responsabilità altrui prima di onorare le nostre.

La liturgia del venerdì santo ha descritto con sapiente efficacia il bisogno sociale di una pasqua almeno annuale nelle ultime intenzioni della preghiera universale. Quella perché i governanti siano “illuminati” nella mente e nel cuore (si noti!) a cercare il bene comune nella “vera libertà e nella vera pace”. E quella per gli “afflitti” in auspicio di libertà da ogni disordine, malattia, fame, schiavitù, oppressione fino a supplicare la sicurezza per chi viaggia, il ritorno per i lontani e financo “la salvezza eterna ai morenti”. Non manca nessuno.

È il mio augurio per i lodigiani, che, nella condizione di ciascuno – felice o difficoltosa – desidero definire “cari” , riconoscendo con gioia la crescente familiarità che ormai ci lega. Ho citato un’espressione di san Giovanni XXIII il giovedì santo ai sacerdoti. E non riesco a trattenerne per Pasqua un’altra che vorrei tanto imitare: la promessa cioè di accogliere tutti con «due braccia fraterne e un cuore caldo da amico...».

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