Il suo nuovo stemma

Obbedienza e pace. Sono le due parole che monsignor Maurizio Malvestiti ha pronunciato in San Pietro non appena ha saputo dal Papa della sua nomina a vescovo di Lodi. Due parole che ha impresse nel cuore dal ricordo di San Giovanni XXIII, il pontefice che ha segnato la sua giovinezza e la sua crescita fino a seguirne le orme lungo il percorso delle Chiese orientali. Ora lascia il Vaticano per tornare in terra lombarda. Su questo e su altre cose ha rilasciato una lunga intervista all’«Eco di Bergamo», che volentieri riprendiamo.

Eccellenza, dopo la preziosa esperienza alla Congregazione per le Chiese orientali torna al servizio pastorale in terra lombarda. Come vive questo cambiamento?

«Il rendimento di grazie a Dio e a Papa Francesco sono dominanti nel mio animo da quando mi è stata comunicata la nomina a vescovo della bella diocesi di Lodi. Ma la mia gratitudine per la Chiesa di Bergamo è pure grande: mi ha, infatti, generato alla fede cristiana e cresciuto nella vocazione al sacerdozio, e mi ha formato alla maturità come presbitero. E le Chiese orientali cattoliche che ho avvicinato in modo tanto approfondito in questi venti anni hanno allargato il mio cuore grazie alla ricchezza delle loro tradizioni spirituali, liturgiche e disciplinari. L’orizzonte del mio servizio si è fatto a tutti gli effetti “cattolico” ossia universale. Ho esperimentato tutta la verità della parola del Concilio ecumenico Vaticano II, quando nel decreto dedicato alle Chiese orientali afferma che la varietà non nuoce, anzi esalta l’unità».

Quale motto ha scelto per il suo nuovo compito episcopale?

«Fin dal seminario mi aveva colpito una frase del profeta Isaia citata da Santa Teresa d’Avila in modo ricorrente e appassionato. In latino suona “in silentio et spe” e la traduzione della Conferenza episcopale italiana è: “nell’abbandono confidente”. Mi ha colpito leggere al completo la frase in una sala bellissima del Palazzo Apostolico una volta venuto a Roma. È proprio l’abbandono confidente alla volontà divina che mi ha guidato nel mio sacerdozio e desidero che il Signore confermi la sua benedizione sul nuovo ministero concedendomi in abbondanza questo dono».

C’è una figura nella sua vita alla quale lega in modo particolare questa novità nella sua vita pastorale?

«Non dimentico mai la fede di mia mamma, la sua dedizione alla famiglia di ben otto figli, l’assoluta fedeltà alla Messa quotidiana e a una visione di ogni vicenda triste o lieta ricondotta alla parola della fede e all’abbandono sicuro nelle mani provvidenti di Dio. Lungo il mio cammino di adolescente e poi in seminario diverse figure di sacerdoti e di vescovi hanno inspirato la mia dedizione al sacerdozio per il bene della gente».

Lei guiderà la diocesi di Lodi, una realtà nuova ma comunque non lontana da casa. Cosa si aspetta e cosa porterà sia nella Chiesa sia nella società civile?

«Nel mio primo saluto alla Chiesa di Lodi ho riconosciuto di essere “l’ultimo arrivato”, al quale viene affidata la prima responsabilità ecclesiale, quella propria dei successori degli apostoli, i quali devono sempre comporre in unità le vocazioni e i doni più diversi. Vado a Lodi disponibile a conoscere e ad ascoltare, soprattutto con spirito di fede. Sarà mia premura leggere la realtà insieme ai sacerdoti e a tutti gli uomini e le donne di buona volontà perché l’annuncio del Vangelo e la vita ecclesiale offrano un valido contributo all’edificazione della società lodigiana, tutti preoccupati del bene comune».

Nel suo passato ci sono due esperienze forti: gli anni da educatore nel seminario di Bergamo e il periodo trascorso a Roma negli uffici delle Chiese orientali. Quale eredità spirituale e umana le hanno lasciato? Partiamo dalla prima.

«Il compito educativo svolto a favore dei candidati al sacerdozio costituisce uno dei ricordi più cari. Mi hanno chiesto impegno ma ho ricevuto uno straordinario sostegno spirituale. Mi riferisco in particolare alla comunità dei sacerdoti con i quali ho potuto maturare sia come persona sia come ministro del Signore, e anche alle famiglie dei seminaristi le quali hanno condiviso in maniera ammirevole gli intenti educativi rinnovando in modo significativo la propria vita cristiana».

E i vent’anni trascorsi tra le segrete stanze in Vaticano?

«Le segrete stanze sono ormai completamente spalancate. Papa Francesco ha dato a tutti (Curia romana compresa) un orientamento di apertura e di semplicità che fanno sentire la Chiesa intera tanto vicina alla gente in piena trasparenza in ogni campo. Come collaboratore e poi capo ufficio e infine sottosegretario della Congregazione per le Chiese orientali, ho comunque sempre respirato il desiderio di questa trasparenza e di questa vicinanza. Senza di esse l’attenzione ai cristiani d’oriente avrebbe incontrato forti ostacoli».

Lei ha avuto il privilegio di lavorare a stretto contatto con tre Papi. Quale ricordo conserva di queste eccezionali figure?

«È stato veramente un dono di Dio di cui non sarò mai grato a sufficienza poter avvicinare tre figure di pastori come gli ultimi Papi. Durante il mio servizio alla Congregazione orientale con Giovanni Paolo II, ricordo Papa Wojtyla nel vigore di quelle forze che inesorabilmente sarebbero venute meno. Mi ha sempre colpito la straordinaria ansia missionaria, e la sua singolare capacità di parlare ai giovani ma ancor più, dal mio punto di vista, il suo sentirsi “il primo Papa slavo della storia”. Era conscio della missione che la Provvidenza gli aveva affidato: riportare l’Oriente nel cuore della Chiesa universale. Indimenticabile questa sua convinzione: le parole dell’Occidente hanno bisogno di quelle dell’Oriente per parlare di Cristo in modo convincente all’uomo di oggi. Non dimentico l’alone mistico che accompagnava l’Eucarestia da lui celebrata».

E Benedetto XVI?

«L’ho conosciuto già cardinale come membro della Congregazione per le Chiese orientali. In taluni incontri la percezione delle problematiche veniva espressa in modo tanto limpido e profondo da lasciare intimamente impressionato lo spirito. Da Papa, ha amato in modo singolare l’Oriente cristiano: porto nel cuore indelebile memoria della sua visita alla congregazione quando seppe tessere l’elogio dei cristiani d’Oriente quali “custodi viventi” degli inizi dell’esperienza cristiana. Affermò che senza la perennità di quella esperienza originaria non c’è futuro per il servizio della Chiesa».

Cosa l’ha colpita di Papa Francesco?

«Ho ricordi molto toccanti per alcuni incontri personali. Mi limito a confermare l’indescrivibile gioia dei nostri giovani quando in piazza San Pietro domenica scorsa hanno sentito le sue parole ormai diventate famose: “Siete bravi voi bergamaschi”. Nella Messa pomeridiana, nell’insperato incontro di cui ci ha fatto dono, addirittura ha evocato gli alpini per invitare “a salire sempre riprendendosi da ogni caduta” perché la vita è un cammino esaltante solo se sarà stato anche perseverante».

Nel nuovo incarico pastorale cosa porta di Bergamo nel cuore?

«Il riferimento spirituale a Papa Giovanni è sempre stato motivo di particolare consolazione. Amico sincero dell’Oriente, ho potuto ripercorrere le sue orme in Bulgaria, in Turchia, a Parigi e a Venezia. A Lodi cercherò di portare quanto ho appreso dal suo cuore di padre e pastore, che traboccava della misericordia di Cristo. Ricorderò ai lodigiani che nell’atto di porre la mia accettazione nelle mani di Papa Francesco, mi sono recato in San Pietro per professare la fede degli apostoli e per ripetere le parole di San Giovanni XXIII: obbedienza e pace».

© RIPRODUZIONE RISERVATA