Don Enrico Pozzoli,una «vita fruttuosa»

e un «sublime esempio»

Accettò l’incarico di cappellano dell’ospedale italiano

e con la

simpatia

della sua semplicità

lo conquistò

a poco

a poco

Quando

gli veniva

affidato

un turno

di esercizi spirituali, predicava verità

e nient’altro che verità, era un sillogismo permanente

Questa fu la principale caratteristica della sua personalità:

il criterio teologico e morale che lo costituiva un sicuro giudice di coscienza

per tutti

Durante

le vacanze chiese di seguire

i grandi missionari della Pampa

con la sua

macchina

fotografica e li aiutò

con allegria nel lavoro

Continuano sulle nostre pagine gli approfondimenti sulla figura di don Enrico Pozzoli, il missionario di Senna Lodigiana che battezzò Papa Francesco.

Pubblichiamo integralmente il testo inviato il 20 febbraio 1962 ai confratelli salesiani da padre Ignazio Minervini.

* * *

Carissimi confratelli,

Ad uno ad uno scompaiono i testimoni viventi dalle prime gloriose schiere salesiano arrivate nella Repubblica Argentina, per infondere qui la luce inesauribile dell’Evangelio e della vita salesiana; ed eccomi ora a comunicarvi la morte del carissimo e indimenticabile confratello sacerdote don Enrico Pozzoli nato a Senna Lodigiana, il 29 novembre 1880, e morto a Buenos Aires, il 20 ottobre u. s. I meriti accumulati durante la sua fruttuosa vita sono scomparsi con lui; rimane però a noi l’incancellabile ricordo e il sublime esempio.

La perdita è stata grave, come ben lo dimostra la difficoltà di trovare chi ne colmi il grande vuoto.

Le sue grandi doti, alcune di natura, altre infuse gratuitamente da Dio, e molte coltivate dalla Congregazione e dal suo sforzo personale, rendono difficile tracciare una biografia esatta.

Nel 1903, D. Rua lo invia tra noi giovane Sacerdote, e come monito all’Argentina: «Eccovi un campione, formate molti secondo il suo esempio». Lo vedemmo arrivare gracile, imberbe, con faccia da fanciullo, tanto da sembrarci strano osservarlo salire all’altare prigioniero degli abiti liturgici. Scendeva in cortile a giocare cogli aspiranti di Bernal come uno di loro, mentre si sforzava di assimilare il nuovo idioma.

Prestò servizio di assistenza nella povera Infermeria del Noviziato salesiano, e fu qui dove si manifestò la prima caratteristica della sua vita, che immediatamente il padre Vespignani volle mettere a profitto. Un giorno corse a battere alla porta del Direttore, per dirgli che un ammalato dimenticato stava grave: «Muore, Padre!» Si dovette chiamare subito il medico, il quale confermò la precoce diagnosi.

Non ci consta se a San Benigno o a Foglizzo si dessero lezioni di medicina, tra quelle di Filosofia e Teologia. Il certo è che possedeva intuito e logica permanente in tutto ciò che pensava o diceva. Presto fu trasferito all’Infermeria di San Carlo, la Casa Madre, come si prese a denominarla: Infermeria poverissima, che vide morire tanti salesiani più che poveramente, e che sperimentò da allora la carità e le nozioni intuitive del padre Pozzoli.

I ragazzi anche loro avevano in quel primo piano un rifugio dove accorrere, sfuggendo la disciplina scolastica, con manie o mali, che il buon Padre sapeva analizzare. Soleva dir loro nel suo dialetto: «Lì a Milano c’è persino un Ospedale, dove è un piacere star ammalati». Effettivamente, con il buon Padre si stava a proprio agio, soprattutto durante il rigore dell’inverno, fin a quando il buon infermiere li restituiva rassegnati alla disciplina dell’internato, purtroppo sempre dura.

Più tardi estese questa sua prima esperienza nella medicina, accettando l’incarico di cappellano dell’Ospedale Italiano, ritrovo allora di carbonari; e con la simpatia della sua semplicità lo conquistò a poco a poco, a tal punto che oggi esiste lì un servizio religioso perfetto... Vi lasciò un profondo ricordo.

Nei ritagli di tempo che la sua occupazione gli permetteva, cercò attività affini alla sua missione. Fu allora che conseguì una macchina fotografica, e non lasciò mai questa piccola distrazione sino alla fine della vita. Sono pittoreschi gli aneddoti che si narrano della sua disinvoltura in qualsiasi atto pubblico in cui figurasse la Congregazione, a fine di lasciare documentate le diverse cerimonie. Col sorriso sulle labbra entrava la sera al refettorio con le copie ancora umide, felice di aver salvato dall’oblio qualche cosa di importante.

Non era un gran fotografo, come il suo amico padre De Agostini, che soleva amabilmente burlarlo per la deficienza delle sue fotografie; egli non cercava l’arte; ma la documentazione. Per questo, durante le vacanze chiese di accompagnare i grandi missionari della Pampa, ora dimenticati — padre Durando e padre Buodo —, aiutandoli con allegria nel lavoro e nelle ristrettezze. Assieme all’altare portatile andava anche la macchina fotografica.

Non era uno scrittore, ma gli dispiaceva che cadessero in dimenticanza le imprese silenziose del deserto; e per questo, ritornando al suo lavoro, impugnò la penna e redattò un Diario di viaggio, che fece poi correggere da caritatevoli confratelli. Molto e reali eroismi di missionari, condannati ad essere dimenticati, rimasero documentati in una religione semplice e pittoresca, caratterizzata da umorismo.

Non era un oratore; ma quando in qualche occasione gli si affidava un turno di esercizi spirituali, predicava verità e nient’altro che verità, un sillogismo permanente... L’effetto della sua parola, garantita dalla integrità allegra della vita, non necessitava critica o elogi, ma silenziosa accettazione.

Non era neppure pittore, eppure fondò tra i suoi alunni una accademia, con la quale santificava le domeniche. Infuse anche lì la sua logica, dando principi di prospettiva e colore, per liberarli dal modernismo esagerato che oggi domina; e alcuni di loro arrivarono a superarlo ed ottenere esito notevole.

Durante i suoi ultimi anni, quando la malattia lo ebbe stancato al punto da negargli ogni sforzo mentale, il senso pratico Io accompagnò sempre e in tutto. In meccanica, per esempio, aveva concezioni, sull’azzardo a dire geniali, che a qualunque costo voleva tradurre nella realtà. La mancanza però di mezzi lo obbligò ad abbandonare progetti che realmente avrebbero meritato essere patentati. Aveva una passione per gli orologi. Quelli da torre specialmente furono i suoi ultimi lavori, come una sinfonia inconclusa troncata dalla malattia.

Non crediamo che la sua affrettata formazione sacerdotale gli abbia consentito laurearsi in Filosofia o Teologia o Diritto Canonico; però quando nei casi di coscienza discutevano i Dottori degli Studentati Teologici coi vecchi sacerdoti, formati all’antica, l’ultima parola la diceva il padre Pozzoli; e quando giungeva la soluzione ufficiale, non rimaneva che direi «Il Padre aveva ragione». Questa fu la principale caratteristica della sua personalità: il criterio teologico e morale che lo costituiva un sicuro giudice di coscienza, abile nell’applicare il probabilismo, per alleviare anime e allontanarle dal peccato con esortazioni brevi e fervorose. Salesiani, Sacerdoti del Clero Secolare, Ex-Allievi ed Allievi maggiori, sentivano un bisogno speciale di lui.

La sua fede non era appariscente, e la sua pietà non era austera, ma amabile.

In procinto di morire, una prima volta, lasciò da parte ogni cosa; sua unica preoccupazione e conversazione fu allora il pensiero dell’eternità, che già gli sembrava imminente. Si salvò per poco tempo, e ritornò al dinamismo del suo lavoro. Quindici giorni dopo una tremenda operazione, la vitalità del suo spirito, rinchiuso in un corpo ammalato, gli permise andare in Europa, per accommiatarsi definitivamente dai suoi. Al suo rapido regresso lo si vide attivo al punto che pochi giorni prima di morire lo scorgemmo con martello e scalpello installando il riscaldamento, destinato ad alleviare i poveri ammalati del Sanatorio.

Arrivò in fine la sua ora. Serenamente chiese un posto nell’Ospedale che era stato testimonio delle sue antiche fatiche. Fu martirizzato dallo sforzo della chirurgia per salvarlo; egli però sosteneva che quella era la fine. Ai Superiori, che gli chiedevano l’offerta dei suoi dolori per l’aumento delle vocazioni, di cui c’è tanto bisogno, e per le quali attualmente c’è in corso una intensa crociata, rispose inaspettatamente: «Pregherò per la perseveranza di quelli che stanno dentro!...» Fu come la sua ultima volontà e il suo testamento.

Fa da se che le esequie furono una grande testimonianza, della stima universale. A noi corrisponde l’onore di aver goduto per sessanta anni il beneficio della sua compagnia. Dio lo tenga nella sua gloria.

Pregate perchè il Signore ci mandi numerose vocazioni della tempra del carissimo nostro Don Enrico.

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