Usura, il Lodigiano non è immune

Calano ma non spariscono i “reati spia” della criminalità

Sono calati, da 13 a 10 in un anno, ma non scomparsi. E se a commetterli, il più delle volte, sono improvvisati dilettanti, in altre l’impronta dei “professionisti” è evidente. Sono gli episodi di usura ed estorsione denunciati nel Lodigiano nel 2011, due dei cosiddetti “reati spia” dietro i quali, spesso, rischia celarsi la mano della criminalità organizzata.

Ma se la maggioranza dei casi, rispetto a quest’ultima, non registra alcuna connessione ufficiale, i segnali di allarme non mancano. Perché la “mala pianta”, le sue radici, può anche averle altrove; ma i suoi mille rami, nel Lodigiano, sono arrivati in più di un’occasione. Anche di recente.

La statistica, in effetti, offre della realtà uno spaccato sicuramente importante, ma non esaustivo. I motivi? La reticenza delle vittime nel denunciare le proprie storie, spesso per paura, talvolta per vergogna, o magari anche per tenere nascosti altri e più personali scheletri nell’armadio.

Ciò di pari passo con il profilo “basso” tenuto da chi, nella vicenda, ha il coltello dalla parte del manico, ma che senza un controllo stretto sul territorio non può esercitare pressioni troppo evidenti, pena l’intervento delle forze dell’ordine. Qualche volta, però, capita che la misura si colmi. Che le minacce aumentino, le ritorsioni salgano di tono, e che il rapporto di sudditanza tra vittima e aguzzino si spezzi. Così il vaso di Pandora si apre, e l’autorità giudiziaria può intervenire.

Svelando situazioni che, qualche volta, affondano le origini nel passato, e che magari sfuggono alle statistiche per pure questioni di competenza territoriale.

È il caso, emblematico, del blitz operato nell’ottobre scorso dalla squadra mobile di Lodi. Nell’occasione vennero arrestati un imprenditore santangiolino, originario di Agrigento e gestore di un locale a San Colombano, e un 43enne di Gerenzago. L’accusa? Aver chiesto tassi da usura, fino al 240 per cento, agli imprenditori cui prestavano denaro. E con loro, scampato il carcere, venne denunciato anche un dentista di San Colombano, reo secondo gli inquirenti di aver prestato capitali agli stessi arrestati.

Punto? No, anzi: a capo e avanti. Sì, perché ai due presunti usurai e al loro presunto complice, la questura era arrivata sull’onda di una delle inchieste più delicate degli ultimi anni; quella per l’estorsione ai danni di un imprenditore cremasco, nel 2009, culminata con un clamoroso “sequestro a ore” di un operaio in un cantiere di Pieve Fissiraga e col risolutivo blitz della squadra mobile di Lodi. La vicenda, finita nelle mani della Direzione distrettuale antimafia, portò in carcere tre persone di origini calabresi, tutti da tempo trapiantati in Lombardia; e tra costoro, in particolare modo, Francesco Mesoraca, l’uomo che, secondo l’accusa, guadagnatosi un subappalto nel cantiere aveva diretto il tentativo di estorsione, reato poi scomparso dalla condanna a 4 anni per sequestro di persona comminatagli dalla giustizia. Ed è proprio partendo dai conti correnti di Mesoraca che la questura era risalita a un altro imprenditore edile, piacentino, rivelatosi poi filo conduttore tra l’operazione di Pieve e quella tra San Colombano e il Pavese dello scorso autunno. Il piacentino, infatti, avrebbe inspiegabilmente versato sul conto di Mesoraca somme ricevute in prestito dai due imprenditori arrestati in ottobre tra i colli e Gerenzago. Prestiti, ovviamente, con interessi a evidente “tasso usura”, in un “triangolo” che darebbe sostanzialmente corpo a un vero e proprio “cartello”.

Non solo. Nelle sue testimonianze, l’imprenditore piacentino avrebbe anche rivelato come, con il Mesoraca finito nel mirino della giustizia, a rivendicarne gli interessi sarebbero subentrati il fratello Vincenzo e un parente stretto, residenti in una provincia emiliana, con nomi e “pedigree” ben noti alle autorità giudiziarie. Subentro, tra l’altro, fallito, poiché gli agenti della squadra mobile di lodi e di Piacenza avevano già teso la “rete” opportuna, attendendo il momento giusto per acciuffarli in flagranza di reato proprio dopo l’incasso della prima “tranche” di quanto loro “dovuto”. Una circostanza che, se confermata, allargherebbe ulteriormente le maglie del tessuto.

In contesto nel quale, come a un tavolo di poker, i registi del cartello si scambierebbero con disinvoltura prede e crediti. Oggi a me, domani a te. Diversi i suonatori, ma identico lo spartito. E le indagini, ormai sconfinate su più regioni e più province, continuano; tra Lodi, Pavia, Piacenza, la “mala pianta” ha ancora tanti rami da potare.

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