Daccò, chiesti 15 mesi per evasione fiscale

Per l'Agenzia delle entrate la sede principale delle sue attività era in Italia e quindi avrebbe dovuto sottoporsi al regime fiscale nazionale, per la difesa invece lavorava all’estero e stava pochi giorni in patria

Dichiarazione fiscale infedele con evasione di imposte superiore a 100mila euro: questa l’accusa che ha portato in tribunale a Lodi Pierangelo Daccò, l’imprenditore di Sant’Angelo che attualmente si trova in carcere a Bollate ed è stato condannato in giugno a 9 anni di carcere, in secondo grado, per l’ipotesi di associazione a delinquere e concorso nella bancarotta del San Raffaele.

A Lodi, al vaglio del giudice Vincenzo Picciotti sono i redditi di Daccò nel 2005. L’iscrizione al registro degli indagati data 2011. Secondo l'Agenzia delle entrate, i circa 300mila euro di redditi che risultano finiti sui conti di Daccò avrebbero dovuto essere dichiarati al fisco italiano e sottoposti quindi ai relativi versamenti. Il pm Raffaella Vercesi, all'esito del processo, ha chiesto una condanna a un anno e tre mesi di reclusione, riconoscendo però le attenuanti generiche.

Il difensore di fiducia Luigi Panella di Roma, che ha depositato anche un’articolata memoria difensiva, chiede invece l’assoluzione con formula piena: «La stessa documentazione prodotta dall'Agenzia delle entrate non conferma assolutamente la tesi che la sede principale delle sue attività fosse in Italia. Anzi». Daccò dal 2005 (e fino allo scorso anno) aveva residenza in Inghilterra, percepiva uno stipendio da una società britannica ed era intestatario di un contratto di affitto nel Regno Unito. Aveva inoltre un contratto di consulenza con la Juvans International Bv, con sede in Olanda e filiale a Lugano, e percepiva in Svizzera il relativo compenso. Veniva inoltre pagato per traduzioni da lingue straniere all’italiano e percepiva compensi anche dalla Dp Consulting di San Diego, California. I pagamenti dalla Juvans arrivavano su un suo conto italiano, all’Unicredit, dal quale erano uscite alcune donazioni per la figlia e su cui risultano confluite donazioni da sua madre.

«Quale italiano che lavora all’estero non manda aiuti a parenti in Italia?», si è chiesto l’avvocato, che ha inoltre evidenziato come i movimenti delle carte di credito indicassero che nel 2005, il periodo “contestato”, «Daccò era in Italia per le vacanze e per pochi giorni al mese». La difesa ha prodotto documentazione che evidenzia il versamento di imposte in Gran Bretagna e in Svizzera: «Non solo vengono conteggiati come evasione fiscale fondi che sono stati versati come tasse ad altri Paesi, ma ci risulta che l’accusa non abbia preso in esame la convenzione del 1990 che regolamenta la doppia imposizione fiscale Italia - Gran Bretagna», ha evidenziato la difesa, contestando inoltre, giurisprudenza alla mano, la recepibilità in sede penale delle presunzioni fiscali, se non suffragate da ulteriori prove. Il verdetto è atteso per inizio novembre.

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