«Tutti i pazienti hanno battuto le mani
A Codogno, un bel momento» VIDEO

Intervista alla dottoressa Ricevuti, che insieme all’anestesista Malara diagnosticò il primo caso di Coronavirus del mondo occidentale

A oltre un anno dalla diagnosi del primo caso di Coronavirus all’ospedale di Codogno, la dottoressa Laura Ricevuti si trova ancora impegnata, in corsia, senza un attimo di sosta.

L’abbiamo incontrata proprio in medicina, a Codogno, dove curò il paziente Mattia Maestri a febbraio di un anno fa, e si consultò con la rianimatrice Annalisa Malara, prima che le dottoresse facessero partire l’iter per il primo tampone Covid del mondo Occidentale.

Entrambe sono state premiate dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. «Non vivo questa cosa del primo paziente con chissà quale enfasi - dice il medico -. È capitato qui, avrebbe potuto capitare da un’altra parte. Io mi sarei aspettata che sarebbe successo in una grande metropoli, a Milano, Torino, Roma, non a Codogno, poi il destino ha voluto così. Io ho fatto il mio lavoro. Le conseguenze, poi sono state importanti certo, ma è stato un caso».

La dottoressa si trova ancora nel pieno del lavoro con la difficoltà a ricoverare perché i pazienti «non covid sono numerosi e c’è una richiesta dal pronto soccorso di tutte le patologie di pazienti. Oggi, per esempio, ho 4 pazienti da ricoverare. Ogni giorno il pronto soccorso ci chiede posti letto. Da noi ci sono 10 posti grigi (sospetti Covid, in attesa di tampone) e 12 verdi, però sono tutti occupati, cerchiamo di accelerare il turnover, in modo che il pronto soccorso abbia ogni giorno dei posti a disposizione».

I malati con i tamponi negativi vengono spostati in area doppia, altri vengono dimessi. «In media - dice la dottoressa Ricevuti - ricoveriamo due pazienti grigi tutti i giorni Gli altri aspettano in attesa di un letto. Il ritmo è pressante».

La campagna vaccinale è una grande opportunità, annota «è una delle poche armi che abbiamo per uscire da questa pandemia. I pazienti hanno paura a venire in ospedale, anche i famigliari. Sono rimasti segregati per mesi, magari sono riusciti a gestire qualche malanno a domicilio. Quindi vivono l’accesso in ospedale con un po’ di preoccupazione: “Allora ho il Covid?”», mi chiedono. «Adesso siamo più preparati. Rispetto a febbraio 2020, però, si fa sentire la stanchezza: da più di un anno lottiamo contro questa pandemia».

A differenza della prima ondata, la medicina sta garantendo le terapie in acuto anche per i malati non Covid. I ricordi di questi mesi si mescolano. «Ricordo dei pazienti non Covid molto gravi - dice, distogliendo lo sguardo - e l’impossibilità da parte dei famigliari di salutarli e poi tutte quelle persone che non si sono più riviste. Tanta gente ha perso i parenti più stretti, colpiti da questa pandemia. Ieri ci sono stati ancora 500 e passa morti, in un giorno. Sono tanti. Ogni volta che ascolto il telegiornale mi si stringe il cuore. Ogni pomeriggio abbiamo due ore di colloquio telefonico con i parenti. Il contatto di persona non c’è più. Noi stiamo facendo il nostro lavoro, non siamo eroi. Gli eroi sono i 5 medici di famiglia che non ce l’hanno fatta nella prima ondata. A differenza dei medici ospedalieri che utilizzavano i dispositivi di protezione, i medici di famiglia erano più fragili».

La cosa più bella? «Quando vedo un reparto Covid che si chiude e diventa pulito, come era successo a maggio o giugno. Tutti i pazienti battevano le mani perché si cambiava colore: è stato un bel momento. Abbiamo pensato: “Stiamo uscendo”, poi, in realtà, non è stato così».

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