
Cronaca / Basso Lodigiano
Domenica 03 Agosto 2025
Nel capannone dove tutto racconta
il mondo di una volta
Voglio passare un sabato diverso realizzando un viaggio alternativo, di quelli che scaldano l’anima, fra memoria, ricordi, suggestioni e anche stupori. E devo ringraziare il mio amico Massimo Bassi che tempo fa mi ha dato l’opportunità di conoscere il casalino Franco Stefano Montini, che ha adibito un capannone a due piani di oggetti del passato, assemblandoli in maniera così perfetta, da rimanere incantanti.
Franco Montini è, lui stesso, una persona particolare, che tende a mimetizzarsi nei suoi modi gentili, squisiti e semplice al tempo stesso, ma quando pone un cacciavite in un modo piuttosto che in un altro lui non si limita a fare ordine, ma esprime poesia; in tutto ciò che ha realizzato ha agito da cantastorie, senza bisogno di racconti fatti di parole: guardi gli spazi che ha riempito di oggetti ed entri nella dimensione del tempo, di com’era una volta, ai tempi di c’era una volta.
Questo capannone è parte di una cascina che era diroccata e in stato di abbandono, e ci sono voluti 10 anni per rimetterlo a nuovo: ma l’impresa è riuscita e ne è valsa davvero la pena. Franco l’aveva capito immediatamente e insieme alla sorella Angela aveva acquistato questa porzione: ora riconosce il merito ad Angela di averlo lasciato fare nel realizzare questo incredibile museo.
Il piano superiore è pieno zeppo di motociclette, di tutte le marche e di tutti i tipi e i modelli. D’altra parte Montini è stato un esperto pilota di moto, nel passato.
Il piano sottostante del capannone, ad esempio, è un susseguirsi continuo di officine e botteghe: da quella del fabbro, a quella del maniscalco a quella dell’elettrauto, a quella del ciclista; sosti per ogni box, e cogli le atmosfere di una volta: c’è persino lo strofinaccio unto dell’olio del motore. Io le ricordo queste officine, quando le marmitte dei mezzi penzolavano dal vano motore sottostante e occorreva portarle alla riparazione; e allora questi angoli, ricostruiti con grande passione e intelligenza, mi commuovono, perché riesco a guardarli con gli occhi del bambino che fui, quando restavo a contemplare le diverse misure delle chiavi inglesi appese a un pannello di compensato bucherellato e provavo a contarle ma poi perdevo il numero e ricominciavo.
Franco Montini, non ho parole per descrive questo ambiente, me le presti lei per piacere!
«Ho voluto realizzare alcuni ambienti dell’era artigianale e meccanica e di quella industriale dei primi del Novecento. Come scelgo gli arnesi? Ho i miei contatti: se arriva un pezzo originale e di interesse ne vengo informato dagli espositori dei vari mercatini. E in più ho una certa versatilità per quanto riguarda il restauro degli oggetti».
Sì, ma io vorrei capire da dove origina questa sua spinta a collezionare oggetti della memoria.
«Ho visto una civiltà rurale che andava modificandosi. Mio padre era ortolano: faceva le verdure qui a Casale e poi le vendeva a Piacenza. Io ero sempre con lui, a 12 anni sapevo guidare il suo camion. Mi sono perciò appassionato ai motori, e al tempo stesso ho visto quel mondo contadino evolvere verso qualcosa di diverso e scomparire».
E quel motocarro con i bidoncini del latte?
«È un omaggio al signor Boriani, uno che faceva questo mestiere. Il figlio mi ha dato i bidoni e io ho riscostruito tale e quale quel mezzo che avevo nella mia memoria. Comunque, anche il lavoro mi ha donato una certa dote pratica, utile a scegliere gli strumenti e gli oggetti».
Che mestiere ha fatto?
«Ho cominciato come tubista, carpentiere. A 16 anni e mezzo lavoravo a Milano per l’azienda O.M. Ho imparato anche a fare il saldatore».
Bellissima quell’incudine!
«Ne ho una decina. In fondo è rimasta sempre uguale nel tempo. Però le incudini sono anche strumenti con loro peculiarità: per essere buone, a forza di essere battute, dovevano incurvarsi. Allora erano di vera qualità».
Il banco del ciclista è da manuale.
«Osservi questi stemmi, o i borsellini che si tenevano sotto al sellino per le attività di riparazioni immediate: sono pezzi introvabili. E le chiavi da lavoro potevano essere utilizzate solo per le biciclette, non si prestavano per altre lavorazioni».
Scusi, ma quella postazione telefonica?
«Guardi, io ho fatto il dipendente comunale. A un certo punto sostituiscono il centralino e portano apparecchiature nuove e sofisticate, e quel telefono volevano mandarlo al macero. Certo, a quel tempo non sapevo che poi avrei realizzato questa struttura, ma come le spiegavo la passione del collezionismo ha germi antichi in me».
Mi sembra incredibile vedere questo ambiente relativo a com’erano le Autoscuola di una volta!
«Ma qui ho solo due pezzi, che tuttavia rendono l’idea. C’è un simulatore, con volante e sedile di una Cinquecento».
L’officina del meccanico è qualcosa di spettacolare: da bambino io volevo fare il meccanico, ma poi non sapevo distinguere un pistone da un martello.
«Questa è ambientata negli anni Trenta: c’erano macchine che si costruivano manualmente, pezzo su pezzo; guardi questa mola smerigliatrice è un pezzo unico, come il trapano a colonna manuale. La vera rarità di questa collezione sono i pezzi unici».
Me ne faccia vedere uno.
«Ad esempio, questo motore per l’accensione di un aereo biplano, risalente ai primi del Novecento. Motore e compressore dovevano essere piccoli, ma efficaci. Oppure questa motosega: fissa, con il motore dritto in piano, e che andava utilizzata contemporaneamente da due soggetti: il motorista e un aiutante, e occorreva sempre spostare manualmente la lama secondo il lavoro che doveva affrontarsi».
Scusi, ma perché ha allestito anche un bar?
«Perché alla sera, prima di tornare a casa, ogni artigiano passava in una locanda e beveva il suo bicchierino: ho creato così l’atmosfera di una volta. E ho voluto inserirvi pure un frigorifero americano dei primi anni Cinquanta».
Devo dire che ha una grande creatività, Franco. A proposito: quella scultura è sua? Raffigura degli schiavi, giusto? Come mai?
«Secondo lei le piramidi chi le hanno realizzate? I faraoni? No, sono state fatte dall’umile lavoro degli schiavi, che si spezzavano la schiena, e io ho voluto rendere loro il giusto onore, riconoscere il lavoro degli ultimi».
È un bel pensiero. Un’altra cosa incredibile è l’officina per la riparazione delle moto: quella latta d’olio mi sembra un pezzo suggestivo, non se ne trovano più!
«Apprezzo molto che lei colga i particolari, ma qui trova tutti gli oggetti relativi alle moto. Gilera, soprattutto. A Casale c’era la concessionaria <Corazza & Viani>, e lì di moto ne sono state vendute proprio tante. Io ho conservato targhe e persino libretti di proprietà: guardi questo, ha il bollo del 1966. Ho anche gli opuscoli delle manutenzioni: dentro c’è la storia di ogni singola moto».
Quante moto possiede?
«Il numero preciso? 140. Ho riscostruito persino il primo motorino che ho avuto da ragazzino. Al montaggio provvedo io, mentre per la cromatura e la verniciatura mi avvalgo di un esperto. Delle vespe il modello più antico è del 1948: tenga conto che la produzione era cominciata due anni prima».
Questo capannone dovrebbe essere aperto al pubblico, alle scolaresche, agli appassionati. E lei avere una benemerenza civica per avere realizzato un luogo museale davvero unico e originale, non un’imitazione di strutture come possono esserne decine d’altre. Posso farle un complimento?
«Me lo sta già facendo».
Ma no, voglio dire che l’insieme è come un’opera di una pinacoteca di assoluto prestigio.
«Questo è un luogo dove io ritrovo me stesso, lo specchio del percorso della mia vita. Non voglio farne una banale vetrina, per gente che possa arrivarne senza capire tutta la passione che ho messo per realizzarlo».n
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