Abita nella Bassa l’ultimo dei palombari

Nato per vivere sulla terra ferma, l’uomo ha però utilizzato il suo ingegno per trovare modi di esplorare ambienti a lui non consoni come le profondità marine. Grazie anche agli studi di Leonardo da Vinci negli anni Trenta del 1800 si immergevano in acqua i primi palombari dotati di brevissima autonomia e vestiti con muta ed elmo rudimentali. L’evoluzione tecnologica è corsa veloce e oggi il mestiere del palombaro non esiste quasi più. Giuseppe Zanaboni, classe 1924, nato a Terranova dei Passerini, nel cuore della Pianura padana, ha dedicato la vita all’attività subacquea. «Un giorno mio zio, tornato a casa dopo un periodo di lavoro sul transatlantico Conte Biancamano, mi disse di abbandonare il mio desiderio di diventare pilota da caccia perché ci sarebbe stata a breve la guerra. Mi consigliò quindi di fare il palombaro. Io gli diedi retta e di lì a poco fui accettato alle scuole Crem, Corpo reale equipaggiamenti marittimi a La Spezia», inizia a raccontare Zanaboni, che nel 1941 conseguì il brevetto da palombaro per profondità massima 40 metri; in seguito fu scelto, grazie al suo fisico eccezionale, per frequentare il corso per brevetto Gp, Grandi profondità all’accademia navale di Livorno.

Zanaboni, giovane palombaro

«Eravamo nel pieno della Seconda Guerra Mondiale. Io e i miei compagni a Livorno siamo stati mandati in due missioni militari, ad Algeri e a Port Sudan sulle rive del Mar Rosso. Una volta sott’acqua lasciavamo il nostro sommergibile e ci spostavamo stando in due a cavalcioni sui “maiali” in modo da raggiungere il porto senza farci vedere dai nemici; giunti a meta staccavamo la testa del siluro carica di esplosivo e attaccavamo questa bomba sotto la chiglia della nave nemica». “Maiale” è il soprannome di un famoso siluro a lenta corsa di circa 7 metri dotato di motore elettrico usato durante la Seconda Guerra Mondiale dalla Regia marina italiana come mezzo d’assalto per i sommozzatori impegnati nel sabotaggio di navi nemiche attraccate ai porti. «Io ero uno degli uomini rana della Xª Flottiglia Mas, squadra che nel 1941 affondò l’inglese Queen Elizabeth. Ad Algeri avevo l’incarico di secondo comandante agli ordini del nobile Junio Valerio Borghese. Fu il comandante Borghese, che a soli 21 anni aveva già concluso egregiamente una missione, a definirmi al cospetto di Re Vittorio Emanuele III come il suo “angelo custode”. È stata una soddisfazione immensa». È difficile riuscire a immaginare oggi le condizioni fisiche e psichiche con le quali dovevano fare i conti i militari come Zanaboni, a cominciare dall’equipaggiamento che prevedeva l’uso dello scafandro, attrezzatura composta da un elmo di circa 36 chilogrammi, da una tuta di 45 e da scarponi di 17 chilogrammi e dotata di autorespiratori di ossigeno. «Occorreva una preparazione fisica importante per stare sott’acqua a grandi profondità con quell’attrezzatura. Mi ricordo ancora il rischio che ho corso nel 1947 mentre stavo recuperando un’ottantina di bambini morti dentro un pullman affondato nel lago di Zurigo. Sono stato sotto un’ora e 45 minuti contro i 45 minuti massimi previsti in questi casi. Mi hanno trasportato d’urgenza all’ospedale Niguarda poiché mi si era compresso dell’azoto nel midollo», sottolinea Zanaboni, che ha portato avanti la sua professione fino al 1992. «Nella mia vita ho passato tanti pericoli e situazioni difficili, ho recuperato circa 650 cadaveri e sono sopravvissuto alla guerra. Mi spiace molto che la fama della Xª Mas sia stata infangata di tradimento da parte dei partigiani. Noi militari siamo tornati in Italia da Danzica nell’inverno del 1943 con i tedeschi che avevano requisito i nostri comandanti. Non avevamo alternative, ci avevano obbligati a lavorare per loro ma siamo sempre rimasti fedeli all’Italia», conclude Zanaboni, che ancora oggi sogna di tornare sott’acqua. I suoi racconti, le sue attrezzature e le sue fotografie meriterebbero di entrare nella nostra memoria storica così come la sua passione e dedizione al lavoro e al servizio dovrebbero essere un esempio.

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