Vuoi fare il professore? No grazie!

Sorpresa! In Italia non c’è più nessuno che vuol fare l’insegnante. Dall’ultimo rapporto Ocse-Pisa, infatti, solo l’1% dei ragazzi intervistati (si tratta di studenti quindicenni) pensa di abbracciare l’insegnamento. Se poi si vuole entrare più nel merito dei dati, allora si scopre che di questa scarsissima percentuale solo lo 0,3% sono maschi. E’ come dire che in un futuro non lontano nelle scuole avremo solo insegnanti donne e questo, secondo il mio modesto parere, non va bene per il semplice motivo che è sbagliato offrire ai ragazzi un unico modello educativo. I ragazzi, checché se ne dica, hanno bisogno anche di una figura maschile di riferimento. Se volessimo dare una lettura più approfondita dei dati Ocse possiamo dire tranquillamente che da qui a qualche anno, risolto il problema delle attuali graduatorie e quello dei precari, se ne presenterà un altro: la carenza di insegnanti. Non è un problema tutto nostro. Mal comune mezzo gaudio si potrebbe dire. Anche in Germania, infatti, l’insegnante non è più considerato una figura professionale da rincorrere. Ci sono altre professioni meglio considerate e meglio retribuite. Stesso problema in Inghilterra. Qui i sudditi di Sua Maestà Britannica per far fronte all’analogo problema hanno pensato bene di affidare la speranza di un’inversione di tendenza a uno spot pubblicitario da trasmettere in televisione nei momenti di maggiore ascolto e in rete mediante il cliccatissimo YouTube. Uno spot fatto di immagini di vita scolastica, con docenti ripresi durante le lezioni e studenti nelle diverse attività laboratoriali e con frasi ad effetto accompagnate da uno slogan altrettanto incisivo: «Il tuo futuro è il loro futuro». Ma perchè questo «gran rifiuto» che i giovani provano verso una professione che tanto ha goduto di fama e di ventura in un passato non lontano? Negli anni cinquanta e sessanta quella dell’insegnante era la professione più socialmente considerata, più autorevolmente riconosciuta, ben remunerata e per certi versi anche alquanto desiderata. Diventare «Professore» era il sogno di tanti ragazzi. Io stesso già dalle medie ogni qualvolta qualcuno mi rivolgeva la fatidica domanda «cosa vuoi fare da grande?», non esitavo a rispondere: il professore! Il perchè è presto detto. A scuola avevo davanti a me persone eccezionali, colte, rispettose, rigorose, amanti del sapere che riuscivano a trasmetterlo con poesia, eticità, amore, passione. Un sorta di «esprit de finesse», per dirla come Pascal, uno dei più grandi «maître à penser» di tutti i tempi, permeava la loro persona che ben si conciliava con l’autentico esempio di umanità e di saggezza da tutti riconosciuta e da tutti onorata. Questa figura rappresentava per me un traguardo lontano e nello stesso tempo una sfida che ritenevo ardua, non fosse altro che per la scala sociale di appartenenza, ma non per questo meno stimolante. Poteva un figlio di contadini aspirare a fare un giorno il «professore»? Il sacrificio e la caparbietà da me messi in campo per raggiungere quel traguardo hanno permesso che ciò avvenisse. Ma oggi i fatti dicono esattamente il contrario. Può un giovane oggi, espressione di una qualsiasi scala sociale, pensare di fare il professore? Pare proprio di no. E mi spiego. La storia quotidiana, infatti, ci racconta di una professione sempre più esposta in negativo e perciò stesso sempre meno desiderata. Perchè si è arrivati fino a questo punto. Ridurre il tutto al solo motivo economico, mi sembra alquanto semplicistico. E’ vero. Lo stipendio dell’insegnante non rappresenta un dato incoraggiante per chi voglia abbracciare questa professione. Ben altri sono gli obiettivi, le speranze, le aspirazioni dei giovani di oggi. La crisi della professione docente trova una sua ragion d’essere su altre sponde su cui occorre riflettere. L’appiattimento retributivo deve essere necessariamente accompagnato da una appiattimento di carriera, ma soprattutto da una crisi d’identità, di considerazione sociale, di autorevolezza oramai perduta. Viviamo in un’epoca dalle grandi trasformazioni sociali, economiche, culturali e questo crea disorientamento in tutti. Da questo processo di cambiamento non è esclusa la scuola che da luogo di conoscenza, da luogo di trasmissione del sapere, si ritrova ad essere identificata come luogo simile a un casermone sociale che chiede ai suoi educatori di badare a intrattenere i ragazzi, di vivere con loro un perenne «intervallo», di preoccuparsi soprattutto a che nessuno si faccia male o arrechi danno a qualcun altro. In fin dei conti questi ragazzi, vivaci ed esuberanti quanto basta, devono pur passare il tempo da qualche parte e in questo la scuola è il luogo ideale per eccellenza. La scuola da luogo del sapere si trasforma in luogo esistenziale, da luogo di incontri di approfondimento, si trasforma in luogo di incontro tra persone, di spazio di comunicazione tra soggetti che amano stare insieme, tra soggetti che, paghi delle conoscenze acquisite o di cui sono già in possesso grazie a internet, sentono l’insegnante come persona del tutto inutile. E’ una lotta continua tra cultura e intrattenimento, tra ricerca del sapere e amore della compagnia. Si ripropone il gran duello tra la cultura e le nuove forme dei saperi, tra gli insegnanti e gli sms, gli i-Pad, le LIM, i videoproiettori, tra la «Scuola di Atene» di Raffaello Sanzio e la «Scuola Digitale» dell’autonomia. Per dirla in parole povere tra Platone e Internet. Una lotta improba resa ancor più difficile da un’amara considerazione sociale tale da rendere arduo ogni tentativo di riemergere. Condizioni difficili allontanano i sogni, le speranze, le aspettative di quanti siano comunque affascinati da questa professione. Un esempio? E’ di questi giorni la notizia (Corriere della Sera del 15/12) di supplenti in fila alla mensa della Caritas per un pasto caldo o al sindacato per chiedere soldi in prestito per tirare a campare in attesa dello stipendio che tarda ad arrivare. Come il prof. Rath nel film «Angelo Azzurro» anche questi colleghi hanno perso la dignità. Ma almeno Rath la perse per la bella Lola. Per fortuna non mancano esempi degni del nostro più grande rispetto. E allora guardiamo con ottimismo a questi esempi. Del resto per dirla come Einstein «meglio essere ottimisti e avere torto che essere pessimisti e avere ragione».

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