Vent’anni fa la morte di Gianni Brera

Il 19 dicembre del 1992, tra Codogno e Casalpusterlengo, nella sua Bassa, Gianni Brera ci diceva addio. Con lui scompariva un vero scrittore, e il più grande narratore di sport. La partita di calcio doveva essere per lui - oltre che oggetto di cronaca e commento tecnico - qualcosa a mezzo tra racconto e commedia. Per dar corpo alle sue intenzioni ci voleva un linguaggio nuovo, parole che non esistevano. Così nacquero i suoi neologismi. Molti dei quali sono tuttora usati da chi scrive di sport, ignaro che a inventarli sia stato lui, Gianni Brera. Molti di quei neologismi sono entrati in una mia tesi di laurea nel 1976.

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C’è un comun denominatore che affratella le aree geografiche della Padania che vanno sotto il nome di Bassa.

Ed è un’aura di distanza dalla metropoli, di usi e costumi resistenti ad ogni tentazione di cambiamento, di reliquie di vita in cui sopravvivono caratteri non ancora omologati dal consumo. Una dimensione costante della Bassa è quella verticale, è la dimensione della preghiera.

E non sono soltanto i mille campanili che tracimano oltre pioppi e platani, salici e olmi. È piuttosto una suggestione del paesaggio, un passare di cielo,una sacralità di gesti antichi, incompatibili con la grande città. E’ la dimensione del paese, della terra accolta tra un fiume e un campanile. A San Zenone Po, paese natale di Gianni Brera, i fiumi sono addirittura due, l’Olona e il Po. Basta andarci una volta per capire Brera come mai lo si era capito prima. Così se il presunto ateo Gioânnbrerafucarlo si raccoglie a contemplare la Padania, assume toni da sacra omelia:

“Non è vero che sono figli della terra i lombardi. Siamo piuttosto noi ad aver fatto la nostra terra. L’abbiamo vista a poco a poco emergere dagli acquitrini e dalle paludi, l’abbiamo difesa dai fiumi. Abbiamo aggiunto alla terra le ossa e la carne di infinite generazioni. Al tramonto i campanili lombardi si accendono di un rosso che è anche del nostro sangue, come opponiamo le dita unite al sole” (Gianni Brera. ‘Il corpo della ragassa’).

Una commozione che si stempera al limite della retorica con quella pennellata lirica sui campanili lombardi stagliati nella preghiera del vespero. Un lirismo che si esalta a volte nel ritmo ternario di retaggio manzoniano:

“Guàrdo ogni volta commosso le colline pavesi che sòno il mio dolce orizzonte di pampini. La tèrra padana si òndula, come un imménso màre sfrangiato, fino a confondersi appùnto col cielo.” (Gianni Brera, ‘Il corpo della ragassa’)

L’illuminista Gioânn resta comunque vigile. Appena si accorge di indulgere al sentimento sterza verso accenti più secchi di preghiera:

“In Novembre la nostra Bassa è il paese più triste del mondo. Gli alberi sono spogli. L’erba è brinata. Dai fossi e dai fiumi sale ondeggiando la nebbia. I corvi si riuniscono in branchi e indugiano sugli arati lanciando rauche strida. La gente sente venire l’inverno e senza volere incupisce. Nei suoi lavori c’è un senso di fretta ansiosa che gli animali scontano a legnate” (Gianni Brera, ‘Il corpo della ragassa’)

Qui la struttura paratattica del periodo – tipica dei veristi – non indulge a ritmi orecchiabili, ma si lascia sfuggire quel ‘nostra’, confessione d’amore. Poi un improvviso ritorno alla cadenza ternaria al comparire della nebbia, nume silenzioso (“dai fossi e dai fiumi sàle ondeggiando la nébbia”). È una preghiera sincopata, mozziconi crudi, ispirati dallo sconforto più che dalla imprecazione: esaltata dalle coordinate, brevi e spoglie come la campagna novembrina. E nelle “legnate” inferte agli animali senti la rabbia della bestemmia, il rovescio mascherato della preghiera.

In questo paesaggio di cieli remoti, di lande ovattate di nebbia l’uomo si sente ungarettianamente preso “in un giro immortale”, unum con le zolle (“Chiamatemi ‘principe della Zolla’, esigeva il Gioânn), e le infinite acque sorgenti dal ventre della terra come salvezza e sventura: la salvezza del pane, la sventura delle piene:

“Sono padano di riva e di golena, di boschi e di sabbioni. E mi sono scoperto figlio legittimo del Po, in aperta contraddizione con il Diritto Romano, per il quale ‘mater semper certa, pater numquam’. La mia sicurezza viene dal complesso edipico nei confronti del padre. Non esiste infatti padano vero nel cui sangue non si perpetui il timore e quindi anche l’odio per il grande fiume. Gli amori e le estasi agiografiche sono vezzi di terricoli con i piedi bene al sicuro. Chi ha soltanto immaginato uno dei suoi nelle acque profonde e impetuose del fiume, non può dire di amarlo. Chi l’ha sentito rombare nelle notti di piena non può non temerlo. Chi l’ha visto erodere a poco a poco i suoi campi e si è ritrovato povero dopo gli stenti, le fatiche, le vittorie di intere generazioni, sente che al fiume padre si rifà la sua sorte nel bene come nel male”. (Gianni Brera, ‘Po’, 1973)

Se non un atteggiamento religioso, persiste una soffusa religiosità, una sorta di compenetrazione panica tra uomo e ambiente, un’accettazione del proprio ineluttabile destino che è dei popoli primordiali, i soli che possano esprimere poesia. E la poesia è la forma più alta di preghiera. E come una ‘via vitae’, la preghiera padana ha le sue ‘stazioni’: i mestieri dei campi e del fiume, la caccia, la pesca. E la più frequentata ed emblematica, l’osteria.

“Quando la ritrovi com’era, l’osteria lombarda ti mette tenerezza. In terra le pianelle di cotto. Due tavole con le gambe rigonfie di tondini. Il tappeto verde qua e là segnato dai circoletti dei calici in cui si è troppo mesciuto. L’acquaio con l’alzata per i liquori. Il gran camino con due panchetti sotto la cappa. Un banco con la fessura a scivolo sopra il cassetto delle monete. L’usciolo della cantina. La porta che dà nella cucina-tinello, dove si accolgono gli intimi. Nell’osteria invecchiano i poveri. E’ il nostro club, la scusa per uscire da case generalmente inospiti, nelle quali non c’è poltrona per mettersi a leggiucchiare in pantofole, il cane becero e petulante che si inebria al tuo odore, i bambini che ruzzano, in attesa che la padrona chiami per la cena. In certe osterie hanno messo in pittura gli ‘habitués’come autentici protagonisti di vita. Li ha ritratti un pittore che era dei loro. Alla ‘Pellegrina’ di San, nella saletta degli intimi, il ritratto di un mio fratello che solo nel convivio ha forse trovato un senso alla vita”. (Gianni Brera, ‘La pacciada’, 1973)

Non per niente nella Bassa le osterie si chiamavano ‘chiese’. L’osteria ospitava i groppi di famiglia, il pensiero del lavoro, l’incertezza del domani, l’angoscia dell’ineluttabile ‘passare’ per il quale non è consentito piangere, ma è possibile trovare un balsamo nel sacramento del vino.

Il ‘mangiarebere’ breriano, benché povero, soprattutto perché povero, diventa liturgia. Per una zuppa alla Pavese, Brera scrive una ricetta alto-sonante come un’ode di Neruda. E l’uccisione del porcello (da Novembre a Febbraio) assurge a vero e proprio rito sacrificale.

“La mattina del sacrificio il maiale viene cautamente allettato a uscire dal suo stambugio fetido. Il poveraccio guarda i bambini grugnendo in affanno come un qualsiasi malandato grassone. Poi arrivano gli uomini che l’afferrano per i piedi e lo trascinano fino ai cavalletti, sui quali viene disteso in tutta la sua mesta goffaggine. A questo punto cominciano i lavacri: sul cadavere ormai garantito di quel povero amico di un anno cadono secchi di acqua bollente”. (Gianni Brera, ‘La pacciada’, 1973).

Il realismo descrittivo si contamina di un’aura sacrale grazie alle scelte lessicali (sacrificio, lavacri) niente affatto improntate ad ironia. C’è piuttosto il sacro rispetto per un animale provvidenziale per la sopravvivenza dei poveri. E, con la gratitudine, il pensiero di un destino comune: un anno per il maiale, non molti di più in proporzione per gli uomini che ne fanno olocausto. Un destino nel quale ci si riconosce fratelli, o almeno ‘poveri amici’.

In un mondo dove ogni gesto è sacerdotale, persino attingere acqua la pozzo diventa un rituale.

“Era uscito rabbrividendo nella brezza di Ottobre. Dai suoi piedi schizzavano le galline crocidando. Aveva sentito il tonfo del secchio sell’acqua profonda. La catena si era tesa. Muovendo l’arganetto aveva controllato che il secchio fosse pieno: anzi fece in modo, mollando la catena di botto, che lo fosse fin all’orlo (un altro brivido allo sciaquio, dilatato dalla buia fossa circolare). Poi, soffiando, aveva dato di braccia per tirarlo su. Il legno dell’arganetto, di duro frassino, si era fatto lucido per l’usura. La corda e poi la catena si avvolsero. Infine affiorò il secchio traboccando le ultime ondicelle. Con mano svelta lo attrasse alla mensola di granito, liberò il manico dal moschettone e corricchiò in casa badando a non bagnarsi”. (Gianni Brera, ‘Coppi e il diavolo’, 1981).

Protagonista di questa mattutina operazione domestica è Faustin Coppi adolescente. Lungi da esercizio calligrafico, Brera sta qui costruendo l’epopea di un povero destinato a diventare eroe. Ogni gesto anche minimo del futuro campione viene dilatato a evento, alla maniera di Pablo Neruda, che fa assurgere a mito anche le lamine acri di una cipolla. E insieme c’è il culto della memoria, la rievocazione affettuosa di una infanzia e adolescenza che è stata anche quella del Gioânn (coetaneo di Coppi), e di tutti i padani che hanno vissute estreme eppur dignitose povertà fino al secondo dopoguerra.

Una frugalità di vita, una selezione primordiale di emozioni e sentimenti, senza i quali non c’è salvezza; retaggio di virtù morali per ogni successiva tappa della storia, compresa la conquista del sospirato ma alla lunga intossicante benessere.

Così Brera tira implicitamente una conclusione non troppo lontana da quella di un suo grande conterraneo, Cesare Angelini, pavese di Albuzzano: un letterato di finissima grana, che Brera ostentava di non amare per almeno due ragioni: era un prete, e – di più – manzoniano fervente.

“La mia casa (scrive Angelini in ‘Questa mia Bassa’, Scheiwiller, 1970) era due passi dal fontanile dove la mattina andavamo a lavarci e l’acqua ci faceva da specchio. Una casupola rannicchiata sotto le sberle dei malanni stagionali che a forza di filtrare stelle dai travoli del soffitto, aveva perso ogni aspetto di abitazione. Ma, fuori dalla finestra! Campagna a perdita d’occhio e tutto il cielo e il vento e l’allegria degli alberi, i buoi, i cavalli e gli uomini che aravano nel sole, come una sola famiglia. Nella memoria e nel sangue del ragazzo, più che il ricordo di quella dura povertà, è rimasto il ricordo di quella natura; e fu la sua salvezza”.

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