Vacche magre, sì, ma non in Parlamento

C’era una volta la”filiera”alimentare. Il suo cuore era l’impianto industriale di trasformazione con tanti nomi di spessore e di prestigio. L’agricoltura e la zootecnia fornivano loro latte, frutta, cereali, carni, uva che, con processi tecnologici di prim’ordine, erano mutati in formaggi, paste, prodotti da forno, conserve, insaccati e vini, capaci di guadagnare successo e fiducia sui mercati nazionali e d’oltre confine. I beni prodotti si vendevano con facilità e gli stabilimenti offrivano occupazione, stipendi e salari ad impiegati e operai che, disponendo di redditi sicuri, compravano scarpe, vestiti, scooter e utilitarie, mantenevano gli anziani, mandavano i figli a scuola, accendevano mutui per una decorosa dimora, risparmiavano.

Quel settore, insieme ad innumerevoli altri manifatturieri interconnessi, costituiva un modello economico, essenzialmente basato sul lavoro sano ed affidabile che faceva crescere la ricchezza del Paese, dando certezze agli adulti e concrete prospettive ai giovani.

Con l’obiettivo di stabilizzare le conquiste postbelliche era però necessario che le imprese versassero coscienziosamente i giusti tributi e investissero quote cospicue di profitti in seri programmi innovativi. Lo Stato, armonicamente, avrebbe sostenuto la propria parte, utilizzando le entrate fiscali per opere pubbliche, sanità, istruzione, sicurezza, giustizia, servizi e welfare.

Accadde però che i capitani d’industria della prima ora, capaci e prudenti, dovessero cedere, per “raggiunti limiti di età” il passo alle generazioni emergenti che, quasi subito, si rivelarono meno avvedute e preparate. Molti neo-imprenditori, si erano abituati alle Ferrari ed ai soggiorni in Costa Azzurra e, sulla spinta di false modernizzazioni, cedettero ad illusorie novità di altrettanto falsi maestri. Le belle realtà che i loro padri avevano costruito con sacrificio e dedizione cominciarono a sfaldarsi inesorabilmente. Alcuni accettarono offerte estere ed uno dopo l’altro parecchi di quei marchi che avevano fatto risollevare la testa all’Italia massacrata dalla guerra, passarono di mano.

Molti altri scoprirono il filone degli “aiuti” politici e le loro trasferte in quel di Roma si centuplicarono.

Parallelamente nei “Palazzi”, non solo della Capitale, avvenne di peggio. Anche in quegli ambienti ove risiedeva e si esercitava il potere, si stava verificando il ricambio generazionale. Quelli, che avevano scritto la Costituzione, si congedavano uno dopo l’altro ed i loro sostituti, cinici, spregiudicati ed opportunisti, non avevano, né la voglia né la stoffa per continuarne l’opera sensatamente avviata. Era epoca di vacche grasse; il Pil galoppava e registrava incrementi annui ora inimmaginabili. Le casse statali erano ben munite. C’era tanta polpa su cui affondare le ganasce.

Senza starci a pensar troppo costoro inaugurarono la tristissima stagione del voto di scambio. Il fenomeno, nato primariamente in certi luoghi, metastatizzò velocemente ed invase in forma maligna tutti i settori della pubblica amministrazione, dal centro alla più minuscola periferia. I soldi correvano a fiumi, gli arricchimenti indebiti si moltiplicavano, parenti, amici, ed amici degli amici, venivano sistemati ovunque, gonfiando gli organici di enti e servizi ben oltre il lecito ed il sopportabile. Una folta schiera di malavitosi, inoltre, capì immediatamente che l’italico “new deal”, vulnerabile ed acquiescente, poteva essere proficuamente sfruttato e, contando su connivenze e collusioni, si inserì capillarmente, come colonie di batteri patogeni, in tutti i tessuti vitali della Nazione, saccheggiando smodatamente risorse e territorio. Per dirla in breve, i figli di coloro che avevano fatto l’Italia Repubblicana, adottarono alla lettera l’affermazione che Fede rico De Roberto aveva messo in bocca ad uno dei suoi Viceré: “fatta l’Italia, ora facciamo i fatti nostri”.

La scuola, la cultura, la ricerca, l’ambiente ? Chi se ne frega! Ci penseranno gli altri.

Poi da Ovest arrivò la tempesta provocata dai banchieri che si erano inventati una nuova economia basata sul commercio dei debiti insolvibili. In estrema sintesi ciò che circolava nelle Borse non aveva la consistenza dei capitali sostenuti da reali patrimoni aziendali solidi e remunerativi, poggiando invece su colossali “pagherò” di tantissima gente, adusa a spendere più di quanto guadagnava e perciò fatalmente insolvibile.

La crisi, inevitabile e violenta, varcò l’Atlantico e si abbatté sulle sponde della nostra penisola, trovando strutture già pesantemente indebolite.

Improvvisamente si scoprì che il “frinir della cicala” volgeva al termine. Le “formichette” che avevano accantonato qualche riserva per l’”inverno” riuscirono per un certo tempo a mantenere a galla la sforacchiata imbarcazione, per poi accorgersi, un bel mattino, che anche i loro sudati risparmi erano a rischio. I “tempi d’oro” degli appalti miliardari, delle tangenti, delle prebende, dei sussidi, dei contributi a fondo perduto, degli assegni ad personam, delle superpensioni, delle consulenze milionarie, delle fortune indebitamente accumulate e trasferite nei paradisi fiscali, avevano aperto un cratere immenso nei conti pubblici ed ora i nodi, o meglio gli inviluppi di nodi, arrivavano al pettine.

Dagli scanni di Montecitorio e Palazzo Madama, e da quelli delle sedi regionali, tutti, adesso, chiedono sacrifici agli italiani, ma salvaguardando gelosamente i propri privilegi, i lauti compensi, i vitalizi, le indennità perfino per la carta igienica, le cure mediche (ivi comprese le liposuzioni e le infiltrazioni botuliniche per le signore o supposte tali) totalmente spesate nelle migliori cliniche private sapientemente convenzionate con il SSN, i viaggi gratuiti per se e per i familiari, i patrimoni opportunamente celati dietro intestazioni di comodo e, primariamente, l’amata, superimbottita poltrona, immeritatamente occupata.

La sommaria analisi (che non ha, peraltro, pretesa di esser tale) può apparire semplicistica, qualunquistica e banale, ma chi è in grado di confutarla si faccia avanti: lo ascolteremo con attenzione, anche se ( ci venga passata la triviale espressione) con le “scatole” stracolme.

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