Una scuola maltrattata? È proprio così?

Quando uno come Roberto Vecchioni, noto cantautore nonché affermato scrittore, con alle spalle anni di docenza di Latino e Greco presso diversi licei classici prima e come docente universitario con corsi monografici presso alcune università poi, ricorre a parole forti come quelle rilasciate recentemente all’Ansa per descrivere una realtà scolastica alla deriva, due sono le ipotesi che si possono ricavare. La prima. Un particolare stato d’animo suggerisce al nostro autore parole piene di amarezza per descrivere una scuola, oramai alle spalle, professionalmente vissuta in un turbinio di cambiamenti ritmati dall’alternarsi dei governi. La seconda. Un’amara riflessione finisce col descrivere una scuola sì cambiata, ma in peggio, destinata a non più essere la protagonista nella formazione dei giovani, costretta, da uno scarso riconoscimento sociale, ad abdicare al un suo compito primario: formare. La conseguenza è sotto gli occhi di tutti con una continua e costante decadenza culturale e morale delle generazioni future. Ma cos’ha detto di così tanto preoccupante il nostro cantautore? «E’ da troppi anni – dice - che la scuola viene maltrattata come una Cenerentola. È da troppo che non ci si rende conto di quanto sia importante come fabbrica di idee e di unità, laboratorio per costruire il futuro. La scuola italiana (e qui l’affondo) sta vivendo una situazione infame e lavorare in queste condizioni è sempre più drammatico».

Personalmente sono dell’avviso che il nostro bravo, buon Vecchioni sia andato un po’ troppo in là nella sua amara considerazione. Che la scuola sia la Cenerentola di un sistema sociale che viaggia più su canali economici che culturali, è una inconfutabile verità. Su questo mi trovo in sintonia. Una constatazione sicuramente condivisa da quanti hanno a cuore le sorti della scuola. E’ opinione alquanto diffusa che la scuola appunto perché improduttiva non può essere deputata a fare la voce grossa. La scuola non è fatta di imprenditori, non ha catene di montaggio da far funzionare a pieni giri, non produce beni materiali, non contribuisce ad elevare il Pil e quindi non fornisce ricchezza. Anzi. La scuola è, per certi versi, chiamata a rosicchiare ciò che gli altri producono. Secondo questo luogo comune la scuola è una zavorra e allora bisogna alleggerire il peso. Come? Per questo è sufficiente rifarsi alle ultime scelte fatte dal governo in tema di politica scolastica con tagli strutturali sia pure bilanciati da una massiccia immissione in ruolo di migliaia di persone tra docenti e ata. Tagli necessari per il ministro Gelmini, tagli distruttivi per le organizzazioni sindacali e per i movimenti dei precari impegnati su più fronti e non rassegnati a cedere. Siamo di fronte al più classico degli esempi per capire bene come una crisi economica, dalle gravi conseguenze sociali, finisce col gravare pesantemente anche su ambiti culturali che pure sono determinanti per la crescita e lo sviluppo di un Paese. La scuola è uno di questi ambiti. Siamo un Paese strano che si confronta a lungo e duramente per stabilire se nella giornata del 17 marzo, considerata quest’anno festa nazionale per le celebrazioni dei 150 dell’unità d’Italia, gli esercizi commerciali debbano rimanere chiusi o restare aperti. Mentre nessuna obiezione si solleva se parlare solo di economia sia una condizione aperta a sollecitare anche problematiche etiche di natura culturale. La scuola, che ha un suo ruolo ben preciso in questa fucina di idee, chiamata per sua natura a preparare le generazioni del domani, passa per un’istituzione che può anche arrangiarsi da sola. E su questo il buon Vecchioni ha ragione.

Prendo, invece, le distanze dal grande maestro quando la questione, da un piano di valutazione, passa a un livello di giudizio dispregiativo. Che la scuola stia attraversando un periodo di sofferenza tra tagli e scarsi investimenti è un conto, ma tra questa convinzione e dire che «la scuola italiana sta vivendo una situazione infame», mi sembra un tantino esagerato. La questione è soprattutto culturale. E qui di «infame» non c’è proprio nulla. O si è d’accordo nel ritenere la scuola un settore strategico per la crescita civile, morale e spirituale di un Paese, e allora non si può pensare a una strategia da strangolamento quale soluzione dei problemi, oppure si è convinti del primato dell’economia su un più vasto aspetto morale e culturale, e allora le conseguenze di un graduale processo di imbarbarimento della società non si faranno attendere in eterno. Si comincia col seguire modelli di consumo e si finisce per rimanere stritolati dagli stessi comportamenti consumistici. Del resto un preoccupante fenomeno negativo, purtroppo, è già in fase di crescita. Lo dicono i diversi fatti di cronaca che vedono come protagonisti giovani e adulti, ma talvolta anche adolescenti esperti testimoni di una cronaca che li vuole protagonisti di scelte sbagliate se non anche di tragici episodi. Ai giovani stiamo, purtroppo, insegnando che avere più soldi in tasca significa avere più chance nella vita; che vestire con abiti firmati e costosi, significa godere di massima visibilità fino ad arrivare ad un’effimera affermazione di gruppo; che spingersi in esperienze estreme, significa dimostrare coraggio, prendendosi beffa di valori e significati comunque insiti in ogni comportamento. E così che si finisce col pretendere di volere tutto e subito, di convincersi che uno più ha le tasche piene e più è presente nelle relazioni. Ma proprio questa deleteria cultura che continua a prendere i nostri ragazzi deve impegnarci ancora di più per opporre e proporre modelli diversi, per dimostrare che si possono raggiungere gli stessi traguardi percorrendo strade diverse da quelle effimere. In sostanza di «infame» può essere solo l’atteggiamento di chi molla, lasciando i ragazzi al loro destino, privandoli di valori, di quel particolare «esprit de finesse», per dirla come Pascal, di cui al contrario hanno tanto bisogno.

© RIPRODUZIONE RISERVATA