Una cooperante lodigiana nell’inferno di Beirut

Alice Boffi, 30enne di Lodi, lavora per una Ong: ieri mattina ha fatto un sopralluogo nei quartieri colpiti

«Sto tornando da una missione a Beirut iniziata alle 6 di stamattina»: così Alice Boffi, 30enne di Lodi, ieri alle 17: si è recata nella capitale libanese per un sopralluogo dopo l’esplosione di martedì 4 agosto che ha distrutto i quartieri della città vicino al porto e recato danni enormi anche tutto intorno. Al momento si contano più di 130 morti e 300mila persone sfollate, dopo lo scoppio di un deposito dove erano stoccate 2700 tonnellate di nitrato di ammonio (e ci sono indagini in corso su munizioni e carburante).

Quando tutto stava per accadere, martedì, Alice rincasava a Juniyah, la città dove risiede, a 16 chilometri a nord della capitale ma sempre sulla costa mediterranea. «Erano le 17.55, mi sono affrettata per prendere l’ascensore che non vedevo da giorni. Alle 18 sarebbe saltata la corrente, volevo evitare di farmi come sempre sei piani a piedi - racconta -. Negli ultimi dodici mesi ci sono sempre meno ore di corrente. Si usano i generatori, che però vanno a benzina, costosissima per un Paese allo stremo». Alice dunque entra nella guest house dell’Associazione volontari sviluppo internazionale, l’ong per cui lavora, che a Juniyah (la città cristiana più grande) ha sede. «Mi sono seduta sul divano e alle 18.07 ho avvertito la prima esplosione: come un piccolo terremoto. A Lodi nel 2012 avevo sentito quello dell’Emilia Romagna, mi si era spostato il letto. Qui istintivamente sono andata verso la grande vetrata. Da lì si vede il porto di Beirut. E nei 3 metri verso la finestra ho sentito il rumore della seconda deflagrazione. È stato assordante, anche a 16 chilometri. Ho visto una nube di colore bianco lattiginoso, un po’ plumbea, una piccola foschia. Non riuscivo a capire cosa c’era dietro».

Un attentato? Eppure nel 2015 a Beirut, quando era esplosa un’autobomba, Alice non aveva avvertito tanto. Un attacco? Immediatamente chiama il fidanzato, libanese. Non c’è rete, ma poi lui la rassicura, sta bene e non è a Beirut. «Il Libano non è soltanto un Paese che voglio aiutare, ma anche la mia scelta di vita, la nostra famiglia per metà sarà libanese. L’ho sentita come una tragedia anche mia». Comincia a ricevere i messaggi che monitorano la sicurezza dei cooperanti. «Man mano che passavano le ore capivo la gravità. Mi sono spaventata molto. I colleghi scrivevano: si sono rotte le vetrate ma stiamo bene, sono esplose le finestre ma sto bene, sono saltate le porte. Hanno iniziato a girare i video e le prime cifre».

In Medio Oriente per la cooperazione internazionale, Alice Boffi è arrivata nel 2015, quando al secondo anno della magistrale ha svolto uno stage di cinque mesi con Avsi. Poi la tesi e la laurea specialista in politica mondiale e relazioni internazionali a Pavia. Da gennaio 2016 lavora per Avsi: in Libano, poi in Giordania dal 2017 al 2019, da un anno ancora in Libano dove è coordinatrice di tutti i progetti di educazione di Avsi che si occupa anche di protezione all’infanzia in risposta alla crisi siriana. Un progetto è sostenuto dalla Cooperazione italiana. «Il Libano ha 4 milioni di abitanti di cui 1 milione e 800mila rifugiati siriani dal 2013 - ricorda -. Avsi è qui dal 1996. Ci occupiamo non solo di assistenza rifugiati e campi profughi ma anche di creazione opportunità di lavoro per giovani, tirocini nelle aziende locali, formazione tecnica, cooperative per donne, supporto psico sociale».

Il 4 agosto, appena dopo l’esplosione, sono stati evacuati i colleghi italiani che si trovavano nella parte occidentale di Beirut. «Sono i quartieri più vicini al porto, quelli della vita mondana, internazionali, con i ristoranti francesi e vietnamiti. Le case alla distanza di meno di 4 chilometri sono state devastate. Fino a 14 chilometri sono scoppiate tutte le finestre. I colleghi sono arrivati nella guest house di Avsi e ho ascoltato le storie. Non ho dormito tutta la notte».

Un Paese allo stremo, il Libano: la crisi economica, il governo temporaneo da ottobre 2019, la svalutazione della lira libanese (e degli stipendi) di 8-9 volte, poi la pandemia. «La bomba è scoppiata in pieno lockdown - spiega -. I feriti sono andati negli ospedali dei quartieri vicini al porto ma gli ospedali stessi sono stati distrutti, infermieri e medici erano morti. Il Libano è un Paese resiliente, ma ora non ha risorse per andare avanti da solo. Ha bisogno di aiuto».

Avsi ha lanciato la raccolta fondi #Lovelibano. «Oggi (ieri per chi legge, ndr) sono stata per una verifica nei quartieri immediatamente dopo i quelli distrutti. Abbiamo incontrano le autorità locali e 20-30 famiglie più povere: aiuteremo quelle che non possono riparare vetri e finestre». Intanto Alice è testimone della mobilitazione massiccia dei giovani libanesi, di tutte le religioni e provenienze culturali, che smuovono detriti e vetri, aiutano gli anziani. I giovani qui parlano tre o quattro lingue, studiano scienze e matematica in inglese e francese, apprendono l’arabo a scuola. Sono strutturalmente aperti al mondo. Sono centinaia di volontari, con paletta, scope e secchi. È un Paese stremato che si abbraccia da solo».

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