Un tucunin de grana “cun la guta”

Se la puntata scorsa sull’abbondanza è uscita inopportunamente proprio in Quaresima, oggi facciamo ammenda parlando di “scarsità”, argomento più adatto sia al tempo liturgico sia al periodo di vacche magre (lod. rela) che stiamo vivendo. E con le briciole che ci sono rimaste da spartire, iniziamo il nostro frugale pranzetto linguistico, non però dalle brise (già viste in passato) ma delle più enigmatiche fregüie. In realtà fregüia, declinata con lievi varianti dalla Lombardia fino all’Istria (fergüia, frigula, fregula ecc.), è lo stesso di briciola, in senso proprio e figurato, intesa perciò anche come ‘piccolissima parte di qualsiasi cosa’. Una parola che ci arriva dal latino fricare, cioè ‘strofinare, sfregare’, il gesto con cui si ottengono appunto le briciole.Qui dobbiamo aprire una piccola parentesi, sollecitati da un lettore che ha lamentato la mancanza, nella scorsa puntata, del termine frego come indicazione di ‘grande quantità’. Frego, anch’esso proveniente dal latino fricare, è considerato popolare ma non dialettale: un termine che, a differenza dell’equivalente fottìo (termine anch’esso classificato dai dizionari “di registro popolare” e da alcuni “volgare”) ha perso per “usura” il primitivo significato sessuale (chi dice “i m’àn fregad la bicicleta” pensa soltanto a... ritrovarla). Ma torniamo alle briciole, sorvolando sull’ovvio brisinin, e atterrando invece sul tucunin, il ‘pezzettino’ (“sagia un tucunin de grana, l’è quel cun la guta”). Come tuchel e tuchelin corrisponde a ‘tocchetto’, voce regionale derivata da tocco, che a sua volta è la versione settentrionale del sostantivo toscano tozzo. Prima di alzarci da tavola, ricordiamo anche bucunin, bocconcino (“un bucunin de pan”) e cicinin (“un cicinin de vin”). Quest’ultimo termine risveglierà in molti fra i lettori diversamente giovani il ricordo di una seguitissima trasmissione radiofonica degli anni ’50 in dialetto milanese, “Ciciarem un cicinin” (per i forestieri: ‘chiacchieriamo un pochino’). Ma allora il “nostro” cicinin, diminutivo di cicin, è in realtà milanese? I vocabolari più titolati (dal Treccani in su) non si sbilanciano più di tanto, riportando cicino/cicinino - ‘voce onomatopeica infantile di provenienza settentrionale’ - col significato di ‘porzione minima di qualcosa’. Segnalano però anche la presenza del termine cicco in Toscana, dal latino ciccum, ‘pellicina sottile’ e, per estensione, ‘cosa da nulla’. Non ci va meglio con un altro termine che pensavamo lodigiano purosangue, pitin/pitinin, che nella forma pitinino è proprio del toscano (variante di piccinino). Pare però che non sia originario della patria di Dante, ma provenga da un’antica base pitt/picc indicante ‘cosa piccola’, dalla quale ci arriva anche il piccolo francese (petit).Qualcosa di ancora più piccolo? Una favilla. Che è la nostra, seppur in comproprietà con mezza Lombardia, faliva. E che diventa anch’essa, nelle parlate popolari, espressione di quantità minima di qualsiasi cosa (“Te vöi una feta de turta?” “Una faliva, che son a dieta”).Arrivati al dolce, ci sembra proprio il caso di fermarci, sennò il nostro frugale pasto quaresimale diventa, anzitempo, un ricco banchetto pasquale.

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