Un paese nel girone della follia

E’ una grossolana leggenda metropolitana. Vi credono, tuttavia, la maggioranza dei columnist, gli esponenti delle classi colte e, nella sostanza, quasi tutti i canali tramite i quali si esprime l’opinione pubblica. La leggenda è che il gioco d’azzardo, “schermato” dal marchio dei Monopoli di Stato, costituisca una “dura necessità”. Perché è censurabile, forse, che milioni di italiani sperperino stipendi e pensioni nelle slot machine (oggi) e nel lotto (oggi come ieri), oppure nelle scommesse (ieri, oggi e domani) o con il poker on line (oggi e sempre più domani). Ma nei conti dell’erario, almeno, arrivano denari freschi e facili.Il gioco d’azzardo di massa, in realtà, non è un male necessario. Ma una perdita secca per tutti: famiglie, economia, fiscalità dello stato. Quest’ultimo, infatti, vi ricava sempre meno. Mano a mano che l’incremento dei consumi “di alea” avviene con progressione geometrica: dai 27,5 miliardi del 2004 ai 61,4 del 2010. E per l’anno in corso, si punta a quota 80.I monopoli definiscono «raccolta» tale consumo di giochi. Ma né l’Aams (Amministrazione autonoma dei monopoli di stato) né il ministero dell’economia tengono a far conoscere l’introito lordo reale, per le casse dello stato, di tale raccolta: meno di 9 miliardi di euro. In altre parole: il consumo, tra il 2004 e il 2010, è aumentato del 220%, il beneficio per il fisco di un misero 20%.Nell’Italia che gioca, vanno in depressione i consumi, anche quelli naturali e necessari. Aumentano le insolvenze. Crollano le spese perle cure odontoiatriche: -54% delle prime visite e -32% per l’insieme delle cure (dal 2009 a oggi). Si mangia meno e si consumano cibi scadenti. Però papà e mamma lasciano soldi nelle macchinette, o cancellano un gratta e vinci.A impennarsi, così, sono le sottrazioni indebite nei luoghi di lavoro, la devianza di massa e i microreati imputabili a persone che sono preda del gioco compulsivo. Tutto ciò, mentre la caduta drastica della domanda di beni e di servizi incide - e molto - sulla crisi delle imprese. E di conseguenza lo stato ricava minor gettito dalle imposte indirette (Iva, accise, ecc.) e da quelle dirette (Irpef, Irpeg). Per ricorrere a un’espressione tecnica: il consumo di giochi d’azzardo è un moltiplicatore negativo dell’economia. Un settore che «estrae valore» (Luciano Gallino) e non «crea valore».Nel settore dell’azzardo, per esempio, tra personale addetto e forza lavoro dell’indotto sono occupate 65 mila persone: in pratica, una ogni milione di euro consumato. Nel comparto dell’automobile, gli italiani spendono oltre 40 miliardi di euro (sempre annui), ma il ciclo industriale, insieme a quello dei servizi della “filiera”, impegna circa 1,2 milioni di persone (dagli addetti alle autostrade al meccanico sottocasa), protagoniste di un ammontare globale di consumi di circa 200 miliardi, H problema è che il modello di gioco pubblico imposto nel primo decennio di questo secolo è strutturato in modo che oltre due terzi delle vincite resti congelato nel ciclo di slot machine, scommesse, lotterie istantanee, azzardo on line. Oltre il miraggio dell’“ipervincita” e della «vincita facile», il gioco d’azzardo di massa si fonda su una galassia di minivincite, cioè di premi irrisori che inducono il «giocatore» a reimmettere il cosiddetto pay out nel meccanismo, con una continua progressione di nuova spesa.L’approccio dei decisori pubblici alla «questione azzardo» cominciò a mutare nel 1992, quando una tempesta valutaria si abbatte, combinandosi con un’aggressione speculativa, sulla lira. I governi che si avvicendarono fino al 1997-’98, alla ricerca di nuove entrate, riformularono il concetto di gioco pubblico d’azzardo: una leva fiscale, strumento importante per incrementare le entrate erariali. Ma nonostante l’ampliamento delle modalità di gioco, il legislatore in quella fase non alterò il criterio preminente della regolazione statale dei giochi, finalizzato a contenere una condotta pur sempre rappresentata come disvalore. Inoltre in quegli anni l’obiettivo di incrementare le entrate tributarie (benché non progressive: in proporzione al reddito, versa di più all’erario chi ha di meno) risultava in effetti centrato, con un prelievo netto per lo stato che arrivava al 32% sul totale delle somme «giocate». La svolta avvenne con l’anno finanziario 2003: da allora l’obiettivo governativo non è più accrescere le entrate tributarie dello stato, ma incrementare l’intera «economia dei giochi». Si è così riformata profondamente l’organizzazione dei monopoli, e l’Aams ha potuto godere di autonomia amplissima, non solo «gestionale», ma anche strategica, con surrettizia invasione di campo nei contenuti e nei valori di una politica pubblica, normalmente di pertinenza del parlamento. Si procede senza remore nel creare non già “valore pubblico» per la fiscalità, ma «valore aziendale» per tutta la congerie di «investitori», dal rispettabile allibratore delle scommesse all’accaparratore di apparecchi automatici (le newslot) al biscazziere on line.Ai dati ufficiali, relativi all’economia dei giochi pubblici d’azzardo, va inoltre aggiunto il “sommerso” (derivante da manomissione dei meccanismi del gioco regolamentato) e l’illegale (nelle diverse graduazioni, dalla combine tra malavitosi di periferia al controllo da parte delle associazioni per delinquere, dei flussi degli impieghi, dei ricavi e delle postazioni). In ogni caso, i dati pubblici offrono la chiave per addentrarsi nello spazio smisurato dell’azzardo.Come si diceva, nel 2010 sono stati «consumati» 61 miliardi 450 milioni di euro e nel 2011 (proiettando i valori del primo bimestre) l’obiettivo di 80 miliardi di euro sarà probabilmente raggiunto. Per capire la portata di queste grandezze, basti pensare che il valore della spesa totale dei consumi degli italiani (casa, cibo, salute, abbigliamento, istruzione, vacanze, ecc.) ammonta a 800 miliardi di euro. Insomma, la quota di spesa versata nel gioco pubblico d’azzardo è stata del 7,7% del totale nel 2010, e minaccia di arrivare al 10% a fine 2011. Eppure, mentre il consumo di gioco continua ad aumentare, non così accade per il corrispettivo delle entrate erariali. Tanto più che da esse (meno di 9 miliardi) andrebbe dedotto il valore complessivo dei costi di amministrazione e gestione (circa un miliardo di euro).Di fatto il gioco d’azzardo s’inserisce, potenziandone gli effetti, nel cerchio vizioso della crisi fiscale dello stato, esasperando la riduzione delle entrate pubbliche. L’ammontare del prelievo erariale unico sull’importo dei giochi d’azzardo raggiunge, infatti, un massimo di 15 punti percentuali (in base ai dati reali del 2010). Tale somma arriva nelle casse del Tesoro prima di quanto deriverebbe al fisco dal consumo di beni e servizi ordinari, che pagano a conclusione del ciclo produttivo annuale, il concessionario del gioco d’azzardo, invece, anticipa subito il versamento del prelievo, in cambio di aliquote fiscali basse. Da un lato lo stato si giova dell’anticipazione del gettito, ma dall’altro paga quei soldi (pochi, maledetti e subito) a un tasso d’interesse elevatissimo, che corrisponde alla differenza tra quel che normalmente avrebbe (il prelievo sugli altri settori di produzione di beni e servizi è tra il 40 e il 45%) e quel che l’azzardo versa.È una decisione illogica, che lo stato compie per compensare impellenti necessità di cassa Chiede dunque denaro fresco ai concessionari, che corrispondono in anticipo forti somme, confidando nella prospettiva di buoni guadagni con nuovi sistemi di gioco. Lo «sconto» fiscale è, di fatto, l’interesse che lo stato paga ai biscazzieri. Nella totale mancanza di controllo da parte delle istituzioni che dovrebbero esaminare questa perversa partita: parlamento e governo.Consegnandosi a questo circolo vizioso governato dall’Aams, l’Italia è entrata in un girone della follia: lo scorso anno, il Belpaese ha assorbito oltre il 18% del totale (stimato in 335 miliardi di euro) dei consumi mondiali di azzardo (valore che sale di altri 10 punti, contabilizzando il consumo illegale o «grigio» di slot machine, scommesse e lotterie) . Ma l’aspetto ancora più paradossale sta nella condizione che accomuna molte aziende concessionarie dei giochi: sono sovraesposte con banche e finanziarie. E con i collocatori di derivati speculativi sul debito. L’aspirante concessionario di un nuovo azzardo, infatti, spesso non ha riserve monetarie proprie, quindi deve ricorrere a prestiti bancari. Che vengono accordati a tassi molto elevati, poiché il concessionario non ha garanzie reali da presentare.Ma come si pagano alla scadenza le rate del debito? Alcuni concessionari ricorrono a manovre di «finanza creativa». Emettendo addirittura obbligazioni, bond e altro. Cioè contraendo nuovi debiti, che incrementano ancora il peso degli interessi. Insomma, chi ci guadagna realmente è il collocatore dei «prodotti finanziari derivati», cioè l’intermediario che piazza le obbligazioni. Il promotore della libertà di speculare, sul mercato finanziario.Così, con un gioco a piramide, cresce l’economia di carta e di promesse fondata sul gioco d’azzardo. Un sistema che costringe ad alimentare la crescita geometrica dell’azzardo (che infatti raddoppia il volume ogni tre anni).Ma siamo ormai vicini al limite fisico di incremento della spesa per giochi: l’Italia rischia seriamente che l’azzardo divenga la sua bolla finanziaria e la fascinazione prosegue: a luglio sono stati aperti duecento (200) casinò on line, si gioca ormai anche con i telefoni cellulari, lutto ciò non riduce la vulnerabilità finanziaria dell’economia dell’azzardo»: cumulando oneri tramite obbligazioni, anticipi e fidejussioni, il sistema imploderà. A quel punto le obbligazioni potrebbero divenire carta straccia e il default finanziario inevitabile. A meno che non si decida di immettere nel giro dell’azzardo ulteriori denari freschi. Di provenienza illegale. Con il settore criminale che via via invaderebbe e incorporerebbe il comparto autorizzato dallo stato, affiancando all’usura verso i giocatori patologici anche il finanziamento ai concessionari, la partecipazione alla gestione dei punti di gioco, la protezione degli esercizi pubblici e delle aziende che operano verso il pubblico.Insomma, maturano i frutti avvelenati delle decisioni assunte dal 2003, quando si decise di incrementare il comparto giochi, senza prevedere che sarebbe sfuggito al controllo. In Italia oggi giocano (e rischiano) tutti. I consumatori, i gestori che conducono i locali, i concessionari che hanno ottenuto l’autorizzazione, le banche che hanno prestato con scarse garanzie. E rischia lo stato, che paga, per farsi anticipare denaro pronta cassa, un tasso d’interesse iperbolico, ovvero la detassazione di molti giochi sulle scommesse on line l’aliquota è del 3%. Sul pane quotidiano è del 4%. Consumate alea, e stringete la cinghia.

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