Un manuale per guidare la protesta

Di solito i manuali vengono consultati in particolari situazioni per trovare soluzione ai problemi che si presentano al fine di evitare conseguenze che talvolta possono essere anche pesanti. I manuali vengono consultati, ad esempio, anche dagli studenti durante gli esami di stato e questo consente loro di evitare errori madornali. Un manuale di 50 pagine, del tutto particolare, è stato recentemente pubblicato a cura dell’Unione degli Studenti con l’intento di scavare ab imis tra i vari commi della legge sulla «Buona Scuola» e dimostrare che poi questa «Buona Scuola» tanto buona non è. E’ come fare una biopsia dall’esito incerto per dare ragione di una diagnosi che porti a dimostrare la caducità di una legge ritenuta disastrosa da questi studenti. Un manuale che non lascia spazio alla speranza di un dialogo rispettoso tra le parti poiché condanna la scuola a mesi di tensioni. E lo si vede già dalla prima pagina che si apre con un incipit degli studenti che rimarrà nella memoria di chi legge: «La scuola che oggi frequentiamo non fa per noi». E giù una serie di motivazioni a sostegno di questo incipit talmente pungente che al confronto il famoso j’accuse di Emile Zola sul caso Alfred Dreyfus, sembra essere una preghiera recitata a mani giunte. Personalmente ritengo estremamente interessante questo documento purché possa contribuire ad aprire un confronto di approfondimento proficuo e costruttivo. E tanto per incominciare chiediamoci perché mai questa scuola non fa per loro? Cosa fa di così insopportabile da meritarsi l’insofferenza dei ragazzi che la condannano senza appello? Ho cercato di analizzare ogni singola motivazione e devo ammettere che alcune di queste potrebbero toccare le corde giuste per spingere docenti e presidi a rivedere certe scelte, certi atteggiamenti, certi modi di porsi. Mi torna alla mente l’intramontabile libro «Lettera a una professoressa» di Don Milani del 1967. Anche allora furono alcuni allievi della scuola di Barbiana a scrivere quelle pagine storiche da cui emergeva una scuola fuori dal tempo, lontana dalle aspettative dei ragazzi. Eravamo alla vigilia del ‘68, un periodo carico di tensioni sociali rese tali anche dalla nascita dei movimenti studenteschi espressione di fratture di modelli culturali. E’ stato detto che «in quegli anni i padri temevano i figli, i professori temevano gli studenti, gli studenti avevano paura della polizia, intimorita, a sua volta, dalla massa degli studenti». Oggi come allora i ragazzi mettono in evidenza una scuola che si è arenata su una «didattica frontale e nozionistica», di una scuola «slegata dalla vita reale in continuo cambiamento», di una scuola che «espelle le classi sociali più deboli» perchè debole e inefficace è il sistema del diritto allo studio, una scuola dall’uso improprio del voto visto e sentito più come punizione che non come merito. Ma allora non è proprio cambiato niente? Sono passati più di quarant’anni da quella scuola, possibile che ci siamo arenati? A sentire questi ragazzi parrebbe proprio di sì. Nel mirino, quindi, c’è un sistema scuola che non coincide con la loro idea di «welfare studentesco», ovvero di quelle politiche sociali che possono aiutare i ragazzi a vivere con più interesse e creatività le opportunità dei saperi.A contrastare questo «welfare studentesco» siamo noi: docenti e presidi. I docenti che sono ancora lontani dalle loro aspettative legati come sono a un modo cattedratico di fare scuola che è poi l’esatto contrario di ciò che chiede la società reale. I presidi sono visti come espressione di autoritarismo tanto poco inclini ad ascoltare, quanto molto propensi a imporsi e a imporre in nome di una scuola che non c’è più. Sono accuse che devono farci riflettere per meglio capire come evitare di perdere una grossa opportunità rappresentata, sia pure talvolta in maniera sbagliata, dal quel sano desiderio di vivere insieme il cambiamento. Sano fino a quando renderemo tale questo loro desiderio. Del resto come dare loro torto quando vedono nelle attuali strutture scolastiche un’antitesi alla creatività e al desiderio del sapere. Molti edifici scolastici sono pieni di sorprese e i calcinacci che cadono in testa agli alunni ne sono testimoni. E cosa dire delle lavagne di ardesia espressione di immobilismo didattico poiché esclude l’esistenza di nuovi approcci metodologici frutto di una tecnologia di gran lunga più vicina ai ragazzi. Negare l’esistenza di queste variabili significa che il passato non ci ha insegnato nulla. Quando il rapporto con la storia non viene curato con la massima attenzione, la relazione diventa problematica. Ignorare le istanze dei ragazzi porta inevitabilmente a gestire più le tensioni che ne deriverebbero che a dare concretezza all’esistenza dei «diritti affettivi» degli studenti. Come si fa a parlare di «cittadinanza attiva», di «solidarietà», di «rispetto delle regole», di «legalità», di «valori etici» se poi non si è in grado di essere o non si vuole essere un concreto esempio di vita? Gli studenti, in fondo, questo chiedono. Un nuovo approccio al sapere, una metodologia a loro più famigliare che riduca la distanza tra «potere» e «sapere», una nuova sensibilità lontana da ogni inquinamento autoritaristico che allontana e complica la relazione su cui si fonda l’insegnamento. Ma gli studenti non possono parlare di realtà che cambia e nello stesso tempo rimanere attaccati ai vecchi metodi che trovano nello scontro l’unica traccia di confronto. Il «welfare studentesco» non si tutela cercando lo scontro con la polizia, né è possibile pensare di contrastare l’autoritarismo di presidi e docenti, che pur esiste, opponendo specifiche forme di autoritarismo studentesco reso concreto da occupazioni, interruzioni di lezioni. La «Buona Scuola» ha messo in campo nuove forme di tutela di diritto all’istruzione, di accesso per tutti ai più alti gradi dell’istruzione, di risorse significative destinate al rinnovamento didattico, alla sicurezza degli edifici scolastici, a nuove metodologie afferenti la didattica innovativa. Ai ragazzi spetta ora distaccarsi una volta per tutte da vecchie forme di contrasto, da vecchie logiche di corporativismo, da un vecchio modo di vivere le relazioni per ricercare nei cambiamenti in atto nuove opportunità per essere più presenti e per contare di più.

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