«Un lavoro faticoso, ma pronti a rifarlo»

La giornata internazionale dell’infermiere mette al centro il ruolo della figura infermieristica, nell’ambito dell’assistenza sanitaria: le loro voci

Hanno scelto di fare gli infermieri e nonostante la fatica, lo farebbero ancora. Quella di oggi è la loro giornata internazionale. In questi mesi, dopo la prima ondata pandemica, i sindacati del comparto hanno rivendicato i diritti della categoria, più riconoscimenti economici e autonomia rispetto alle altre figure del comparto. Le motivazioni che hanno spinto gli infermieri a fare questo lavoro, però, sono centrali.

«Mia mamma - spiega Marina Renata Groppi,34 anni, di Castelgerundo - era una infermiera, adesso in pensione. Il suo lavoro mi ha sempre affascinata. Quando ho terminato le superiori, mi sono iscritta al corso. Sono sempre stata affascinata dall’area critica. Infatti ho sempre lavorato in rianimazione, poi, a parte una breve pausa nell’area materno infantile, adesso lavoro in pronto soccorso, a Codogno. Mi piace stare nell’ambito dell’emergenza, sapere di poter dare qualcosa in più alle persone e, in questo momento che i parenti non possono entrare in ospedale, mi piace essere da tramite tra i parenti e i malati. I famigliari sono molto contenti di avere una persona di riferimento alla quale appoggiarsi».

«Ho scelto di fare l’infermiera perché mia madre era malata da quando ero bambina e speravo di poterla curare. Soffriva di depressione e altri disturbi legati alla salute mentale - racconta l’infermiera Silvia Fortunato, che ha curato la raccolta “Racconti di cura che curano “ (https://yotu.be/FpUvR_jXG-A) -. Ho lasciato economia e commercio perché ho capito che la mia strada era questa, dato che da bambina mi occupavo già di relazione e cura. A pochi anni da quando ho iniziato a lavorare, però, mia mamma è morta in poche settimane per un tumore cerebrale».

Eleonora Colnaghi, di Lodi, non è un’infermiera, ma un medico anestesista: lavora da tempo, sia in sala operatoria che in area critica del pronto soccorso. «Ho lavorato diversi anni in rianimazione - dice - e ho capito subito cosa significhi avere accanto un infermiere, sin da quando sono arrivata in ospedale ancora studentessa. Gli infermieri sono compagni inseparabili e preziosi. In urgenza rendono possibile il vero lavoro di squadra. Lavoro da tanti anni con Cinzia, Renata, Julia e Maria. Ormai non mi serve nemmeno chiedere. Ci conosciamo così bene e loro conoscono così bene il loro lavoro da lasciarmi il tempo di concentrare tutte le mie attenzioni su quello che sto facendo, senza essere distratta da nulla. Senza un buon infermiere è difficile fare il medico».

«Essere infermiere - aggiunge Andrea Levantino, 45 anni, di Lodi, infermiere dell’area cardiologica all’ospedale Maggiore - vuol dire prendersi cura degli altri, soprattutto in questo periodo pandemico, in cui prendersi cura degli altri è una vera e propria sfida, visto che i malati da una condizione di salute ottimale si sono trovati in un letto con il casco. E prendersi cura degli altri, in questo periodo, vuol dire anche rischiare la propria salute, fisica e mentale. Quando ho scelto questo lavoro non ero così consapevole delle difficoltà che ci sarebbero state, ma lo rifarei. A farmi rifare questa scelta sono le soddisfazioni che ho tutti i giorni. Purtroppo in Italia, rispetto agli altri paesi, quello che manca è il riconoscimento della figura professionale. Quando però esci dalla sala di emodinamica e vedi che un paziente giovane , entrato in gravi condizioni di vita, sta bene, e magari dopo qualche giorno lo incontri anche, mentre passeggia in città, capisci che quello che fai ha un senso. L’impegno, i turni serali, le chiamate nei festivi sono ricompensati da queste soddisfazioni».

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